La pronipote “d’arte” e la sfida all’anoressia

Se ti chiami Emma Woolf la narrazione fa parte dei tuoi geni. E in effetti Emma Woolf, londinese, 35 anni, pronipote di Virginia, scrive molto bene. Peccato solo che il suo primo libro tradotto in Italia non sia un’opera di finzione, ma il suo terribile diario privato, il diario del tentativo di guarire dall’anoressia. Con grazia, ma senza tacere i dettagli più crudi, racconta in prima persona la sua discesa agli Inferi: l’infanzia felice, in una famiglia di intellettuali con pochi spiccioli ma molto amore. Le scuole importanti e i successi ad Oxford. Poi qualcosa, attorno ai 19 anni, si spezza: un amore finito all’improvviso, una delusione, una serie di storie sbagliate, il suicidio di una persona cara. E il corpo reagisce infliggendosi continue punizioni: la fame, il desiderio di cibo e l’impossibilità di riuscire a ingurgitare nulla se non una mela al giorno. Emma, un metro e sessantacinque, arriva a pesare 38 chili. Ma la sua è un’anoressia “attiva”: continua a correre, ad andare in bici, a lavorare nella casa editrice dove fa carriera. Ma è sempre sull’orlo del baratro: magra, magrissima, rischia più volte il ricovero. Poi arriva Tom e le cose cominciano a cambiare. Giunge il desiderio di diventare una coppia, di avere dei figli: è la molla che fa cambiare tutto, o meglio, qualche cosa. Emma non è guarita, ma ha capito che la natura, per renderla madre, la vuole più forte. Non solo nel fisico. In questo memoriale, nato sull’onda del successo della sua rubrica settimanale (Una mela al giorno) sul «Times», si spiega come l’anoressia vada prima guarita nel cervello. La storia di Emma non è finita, ma merita di essere letta.

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