La guerra di retrovia dell’untore Bucky

di Paolo Petroni

Il ventitreenne Eugene Cantor, detto Bucky, scopre che per ritrovarsi a combattere il male, a lottare con qualcosa di imprevisto e inspiegabile che arriva a rovinarti la vita, non c’è bisogno di essere stato arruolato e spedito in Europa a far la guerra alle truppe naziste animate dalla follia di Hitler. Lui, riformato per colpa di una grave miopia, con un senso di colpa davanti ai suoi amici partiti per il fronte, si dedica coscienziosamente e con passione al suo impegno di insegnante di educazione fisica e animatore di attività sportive nel campo di Chancellor Avenue, nel quartiere ebraico di Newark e vive la sua prima, importante storia d’amore con l’intraprendente Marcia. Siamo però nel fatidico anno bellico 1944, in cui nella cittadina, ma anche in buona parte degli States, scoppia un’epidemia di poliomelite, undici anni prima che venga scoperto il vaccino. Bucky, orfano di madre dalla nascita, si ritroverà così in prima linea, religiosamente sempre più scettico e ostile a «un Dio che passa il tempo a uccidere i bambini», come dirà poi. Il romanzo di Roth racconta questa storia, racconta la perdita della fede come perdita della fiducia nella vita, una fede ricevuta e accolta senza farsi domande, mostrando assieme come il gioco e la spensieratezza, l’innocenza di un

campo sportivo vengano intaccati dai colpi che arrivano a spegnere o a segnare per la vita alcuni dei ragazzini che lo frequentano e che vedono in lui, dal perfetto corpo atletico, un esempio, un eroe, «l’autorità più esemplare e riverita che conoscessero, un giovane di salde convinzioni, accomodante, cortese, equanime, premuroso, gentile, robusto...», capace anche di difenderli da un gruppo di giovinastri ben più grossi di lui, venuti a provocare e a cercare lo scontro, oltre a lanciare il giavellotto con un’armonia di muscoli e movimenti che li incantano. Due dei ragazzi di Bucky muoiono. Uno è Alan Michaels, per le sue doti umane e potenzialità atletiche forse il prediletto del maestro, il quale non riuscirà a accettare una simile sorte, a spiegarsi il senso della morte, specie se coglie in così giovane età.

E per quel meccanismo perverso per cui, specie quando il colpevole è tanto più grande, indefinito, irraggiungibile di noi, l’uomo assume su di se quella colpa e ne fa un elemento autopunitivo, autodistruttivo, Bucky rinuncerà alla sua vita, all’amore, ai rapporti con gli altri, segnato nel fisico, con un braccio e una gamba avvizziti e paralizzati.

A darci la chiave di lettura della storia che ci è stata raccontata, è l’ultima parte del romanzo, quella - diremmo - che gli dà il titolo, in cui uno degli ex ragazzi di Mister Cantor, come lo chiamavano loro, lo incontra quasi 30 anni dopo e ci racconta in prima persona come Bucky si sia ridotto, quale sia da allora la sua nera, eremitica visione dell’esistenza, convinto, tra l’altro, di essere stato lui il portatore della malattia, l’untore involontario di tutti i suoi bambini. «Dio ha fatto morire mia madre di parto - dice -, Dio mi ha dato per padre un ladro. Quando avevo poco più di venti anni Dio mi ha dato la polio e io a mia volta l’ho data ad almeno una decina di ragazzini, forse di più, inclusa la sorella di Marcia, incluso te, probabilmente. Incluso Donald Kaplow, che è morto in un polmone d’acciaio all’ospedale di Stroudsburg nell’agosto del 1944. Quanto dovrei essere amareggiato, secondo te?»

Philip Roth ci da con Nemesi l’ultimo, più disperato romanzo che nasce, come quasi tutti i suoi ultimi, da una riflessione sulla morte, divenuto nodo centrale di quella sua eterna indagine sul senso della vita e sul sesso quale momento rivelatore, pulsione profonda tra natura e sentimento, e lo fa come sempre con l’abilità non dello scrittore che ragiona e fa ragionare i suo personaggi, ma raccontandoci una vera e propria storia, coinvolgendoci al suo interno, dove è il senso da cui scaturisce.

------------------------------------

PHILIP ROTH, Nemesi.Einaudi, Torino 2010, pp. 184, 19 euro

© RIPRODUZIONE RISERVATA