C’é un correre per le strade, c’é una moto come simbolo di libertà, di andare a scoprire il mondo con innocenza, aperti a tutto, in queste pagine, e c’é il crescere e il morire, metaforico e reale, da quello di tutto un Paese a quello del Tenebroso a cavallo della sua moto o del piccolo Ermanno Lavorini ucciso nella pineta della Marina di Vecchiano, vicino a Pisa: «Neppure oggi, dopo quarant’anni, sappiamo con certezza cosa fu costretto a subire quel povero ragazzo. ma non è questo che ci interessa. L’importante è che Ermanno fu ucciso e che, con la sua fine, l’Italia si gettò dietro le spalle l’innocenza».
Ad Aurelio Picca non interessano le prospettive storiche, le cesure profonde e drammatiche, non il movimento studentesco o l’autunno caldo con cui si apre una stagione tragica, ma la vita quotidiana, il modo di essere delle persone qualsiasi in un paese che vive la sua giovinezza economica, che si lascia definitivamente alle spalle la guerra e la ricostruzione e si sente spensierato e innocente, libero sull’onda delle mille canzonette pop in cui si rispecchiarono quegli anni Sessanta, da Ornella Vanoni a Massimo Ranieri, da Peppino di Capri a Gianni Morandi, da Nada ad Adamo e via ricordando. E lo scrittore crea proprio una sorta di colonna sonora di citazioni di quei versi al suo racconto, che va di pari passo con un’ispirazione visiva, quasi a contraltare, in cui invece è l’arte d’avanguardia, di ricerca di quegli anni a venir ricordata, i Sacchi e le
Mille ricordi, citazioni, personaggi noti e non restituiscono, con la vitalità anche concitata della scrittura emotiva di Picca, quel decennio che fu anche il decennio della giovinezza e dell’innocenza dell’autore. Un autore che nei suoi libri, da Tuttestelle a Sacrocuore e al recente Se la fortuna è nostra, mostra un rapporto diretto con la vita e lo sviscera sulla pagina, dolorosamente, ineffabilmente, passando certe volte più per quel che sente il cuore, altre attraverso la pancia e la testa. In tutti i suoi libri, in versi o prosa, il senso di un’identità trovata e di una salvezza si rivelano nel momento in cui se ne celebra la fine (come questo “addio” che nelle ultime righe confessa di voler essere un arrivederci) e la testimoniano.
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