La scrittura di Giovannino Guareschi ha gli stessi sapori e gli stessi odori che accolgono chi si siede al tavolo di una delle rare osterie della Bassa Parmense (o del Piacentino, ci sia consentita la divagazione) sopravvissute al sushi, agli involtini cinesi bollenti dentro e ai locali con le pareti a specchio e i piatti quadrati. In quelle superstiti osterie gli ingredienti in cucina sono pochi, sempre quelli, ma buoni. Sanno di terra, di stagioni che passano, di lavoro silenzioso e fedele, di stalla, di sole e di nebbia, di gente che parla poco, abituata a piegare la schiena sui campi. I racconti di Guareschi sono così: parlano (senza impiegare una parola più del necessario) del suo microcosmo familiare, dei piccoli sogni che fanno le persone semplici, delle arrabbiature di tutti i giorni, dell’apparente banalità - insomma - che accompagna la vita quotidiana di una famiglia borghese senza grilli per la testa. Niente colpi di testa, nessun innamoramento per mode passeggere, mai una fuga in avanti. Detta così, la faccenda parrebbe noiosa. O meglio: parrebbe noiosa per chi pensa che la letteratura consista nello scrivere di draghi, di epiche battaglie, di maghetti con gli occhiali e di grandi amori. Guareschi, più modestamente, nella raccolta di racconti La famiglia Guareschi si limita a parlare di sè, della moglie Ennia (Margherita nella finzione letteraria), della “Pasionaria” Carlotta e di Albertino, i due figli che ancora oggi a Roncole Verdi, di fianco all’abitazione in cui nacque il “cigno di Busseto”, continuano ad accogliere visitatori nella bella casa fatta costruire dal padre (se li andate a trovare portate un salame delle vostre parti, sarà apprezzato). Sono loro i protagonisti di questi brevi racconti, editi da Rizzoli, che coprono parte della produzione dello scrittore (l’autore italiano più tradotto e letto al mondo, se ne facciano una ragione i critici letterari con
barba, occhiali e panza d’ordinanza), quella che va dal 1939 al 1952 (altri volumi seguiranno). Un periodo in cui Guareschi affianca all’attività di giornalista (di razza) una sorta di diario delle avventure familiari che compare sotto diversi titoli su varie pubblicazioni tra cui «Bertoldo», «Candido» e «Oggi» e su alcune riviste femminili. In questa raccolta si passa dai racconti del tempo di guerra, in una Milano resa ancora più grigia e spenta dal razionamento del cibo e dall’oscuramento imposto da regime fascista, alla fuga nella Bassa, di fianco alla casa del Maestro, nel famoso “ettaro” di terreno su cui sorgerà “l’Incompiuta”, la casa-studio-azienda agricola-ristorante-bar che diventerà il “buen retiro” dello scrittore. In mezzo ci sono capolavori di umorismo condensati in due o tre pagine che farebbero la fortuna delle tante seconde linee dei vari Zelig e Colorado Cafè che d’estate sindaci e assessori infliggono al pubblico dei festival all’aria aperta. Basti pensare a racconti come Il complesso del pomodoro («Margherita - le comunicai con la dovuta circospezione - è spiacevole dovertelo dire ma tu hai “il complesso della quarantenne”».«È una cosa grave, Giovannino?». «Abbastanza, Margherita: sono cinque anni che ce l’hai, se ci pensi») o a La casa nuova, dove da un cancello di cui esiste una sola, preziosissima chiave Guareschi riesce a tirare fuori un capolavoro. Un umorismo che ricopre come una patina i pensieri di uno spirito libero che sapeva ragionare con la propria testa in tempi di conformismo intellettuale dilagante e osservare anche i più piccoli particolari della vita. Anche della vita dei figli che crescono. Lo fa in pagine intense - perfino dure nella loro onestà - come L’estraneo. Pagine che andrebbero inserite nei testi di pedagogia: «Nelle famiglie, improvvisamente, il padre s’accorge che c’è in casa un estraneo. La madre non se ne accorge mai e per lei il figlio sarà sempre il suo bambino (...) Ma il padre non si inganna: c’è uno scatto, a un certo momento, ed ecco che il bambino non è più quello di prima...».
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GIOVANNINO GUARESCHI, La famiglia Guareschi, Rizzoli, Milano 2010, pp. 1428, 32 euro