Invasi dai cinesi: non è fantascienza

Quando il godimento rimane l’unica cosa che ogni vita vorrebbe per sé, ciò di cui si finisce inevitabilmente per godere è l’atrocità»: questa affermazione, che pare tanto pertinente al degrado del nostro mondo individualista, edonista e consumista, trova in realtà la sua espressione più letterale e carica di violenza divenuta spettacolo in quel 2072 in cui è ambientato questo apocalittico, respingente e assieme coinvolgente romanzo. Passato il 1984 di George Orwell, passato il 2001 dell’Odissea di Stanley Kubrick, ora i 60 anni che ci separano da questa data scelta da Antonio Scurati non può che preoccuparci, visto che il libro è appena uscito e già una delle sue profezie sembra farsi realtà: il fatto che la Cina possa rilevare il debito pubblico dell’Italia. Al di là di questo gioco, a contare è la grande, magmatica visionarietà dello scrittore, che ci racconta l’estrema degenerazione dei giorni che stiamo vivendo, e lo fa attraverso l’orrorifico microcosmo di Nova Venezia, protettorato cinese che isola con dighe il bacino di San Marco, la parte centrale della città, devastata ai tempi della Grande Onda, dello sciogliersi dei Poli e di altri cataclismi ecologici, e ora d

ivenuta una grande pozza di acqua stagnante che va da San Silvestro all’isola di San Giorgio, dalla Punta della Dogana alla Riva degli Schiavoni e ha chiuso Piazza San Marco, col palazzo Ducale, sotto la cupola climatizzata trasparente del Superdome. Non per proteggere i monumenti, se la basilica è senza più il portale e invasa dall’acqua: «Gli ori dei mosaici scrostati tessera dopo tessera, le cupole sfondate, i fieri cavalli di Bisanzio decapitati.... Dai crateri aperti sulle cavezze rigurgitano lave di guano». Nova Venezia è una zona politicamente autonoma, diventata una sorta di Las Vegas, che ricorda un po’ le città di Blade runner, dove dilaga la prostituzione, per il divertimento di centinaia di miglia di turisti «disinibiti, sfrenati, promiscui», preda di ogni tipo di droga e tutti armati, ognuno con un coltello, una daga, un’ascia, perché l’arma da taglio è un po’ il simbolo di questo cruento divertimentificio intriso di sangue, dove sono bandite la armi da fuoco e l’attrazione principale, quella che infiamma e «diverte», è, come un tempo, il combattimento di gladiatori in un’arena al centro del Superdome e dove sangue, mutilazioni e morte sono intervallate da «intermezzi comici», ovvero proiezioni di grandi disastri. Un simile resoconto di orrori trova la sua forza narrativa nell’essere costruito attorno a un personaggio, il Maestro, capo dei gladiatori, figura che, con i suoi ricordi, si allaccia alle libertà del passato e, strappandosi la capsula sottopelle che impedisce a tutti di procreare, si proietta in un futuro, con la nascita di una figlia, che lo costringerà a vivere a qualsiasi costo. Ma il personaggio più alto è uno dei gladiatori, il campione Spartaco, ritiratosi dall’arena per l’inaudita violenza cui è stata sottoposta la sua donna dalla polizia di regime, gli Zero, il quale cercherà la libertà oltre il muro della diga, in quell’altrove che è putrida palude, natura tornata primordiale dove vige solo la lotta per la sopravvivenza, e comunque riesce poi a arrivare la mano del potere a decretarne la fine, mentre i suoi ex compagni progettano la rivolta contro i cinesi, che però sono stati avvertiti. Questo ritratto del nostro futuro cupo, anche forse nel suo un po’ eccessivo reiterarsi narrativo, anche se costruito su una ricchezza di invenzioni, metafore e particolari coerenti e coesi ammirabili, Scurati lo chiude così, senza dirci chi vincerà, senza apertura alla speranza, se non nell’imperativo della frase finale del Maestro: «bisogna restare in vita».

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ANTONIO SCURATI, La seconda mezzanotte, Bompiani, Milano 2011, pp. 350, 19 euro

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