Il ritorno di Kis, l’ebreo jugoslavo emblema del ’900

Grande scrittore Jugoslavo, visto che è scomparso a 54 anni nel 1989 senza arrivare ad assistere al crollo del Muro di Berlino e di tutto quel mondo (ivi compreso lo sgretolamento del Paese negli attuali Stati che ne sono figliati), figlio di un ebreo morto in un lager nazista e di una donna montenegrina, Danilo Kis è uno degli scrittori più interessanti e significativi del secondo Novecento europeo. Uno scrittore che, come pochi, seppe rendere lo spirito del tempo giocando tra autobiografia e ricostruzione documentaria più o meno artistica. I racconti che oggi pubblica Adelphi in buona parte sono nati assieme a quelli che sono andati a costituire il suo capolavoro riconosciuto, Enciclopedia dei morti, pubblicato nei primi anni ‘80 e messi da parte all’ultimo, come racconta la curatrice del volume, uscito postumo, e sua prima moglie Mirjana Miocinovic. E di quelle pagine questi racconti conservano l’invenzione esemplare ben radicata nella realtà e la storia, spesso in questo caso con riferimenti alla vita di letterati del recente passato, da Odon von Horvath a Ivo Andric, oltre a un’apparente frammentarietà e incompiutezza molto moderne. I primi tre, dei sette racconti qui riuniti, ci restituiscono il Kis migliore col suo senso di sradicamento e solitudine, con le sue storie di morti ineluttabili e tragiche, come quella de Il senza patria, scrittore con la paura degli ascensori che va incontro al suo drammatico destino a Parigi (dove anche Kis visse l’esilio dal suo Paese che lo censurava) che gli era stato annunciato dal mago Gottlieb ad Amsterdam. Jurij Golece figura invece come un amico dell’autore scampato da Auschwitz, disperato per la morte della moglie molto più di quanto lo fosse stato nel lager e che decide di suicidarsi sparandosi, non avendo il coraggio di farlo con altri mezzi, finendo sotterrato accanto alla sua compagna di 30 anni di vita comune: «Un ottimo bilancio per una vecchia coppia di ebrei». Nel lavoro di Kis, nel suo modo evocativo e poetico di scrivere, c’è tutto il peso di chi porta sulle spalle il senso e gli interrogativi di un sopravvissuto alle grandi tragedie che hanno insanguinato il Novecento nel segno dei grandi regimi totalitari, dei loro silenziosi e drammatici massacri collettivi e di singole persone, rimaste senza nome e senza tomba. Esemplare il racconto che dà il titolo a questo volume, l’unico della raccolta ambientato a Belgrado (e si avverte una leggera nota di malinconia nostalgica nel riferire pur senza sentimentalismo alcuno di certi luoghi e persone) e legato a un viaggio a Mosca al seguito di una compagnia teatrale, occasione per andare alla ricerca di segni di alcune persone scomparse nel nulla, in realtà vissute sotto lo stalinismo «come se fossero morte». Il tema della morte in Kis si intreccia sempre con la presenza e la riflessione sullo scrittore e la scrittura, sul suo destino e la sua sopravvivenza. La letteratura è il segno di una dignità e una resistenza che non viene mai meno.

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Danilo Kis, Il liuto e le cicatrici, Adelphi, Milano 2015, pp. 158, 13 euro - traduzione di Dunja Badnjevic

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