Il peso della parola dentro una trincea

Ben ancorata alla falcata lunga della frase e del senso di questa, la poesia della Agustoni in Il peso di pianura tiene dietro a un’urgenza del dire e del nominare che è il peso che incatena e fa muovere un’indignata appartenenza al discorso su ciò che c’è e su ciò che non sussiste.Già ci aveva convinto la sezione Fabbrica di Taccuino nero (Le Voci della luna, 2010) del precedente libro, un’investigazione serrata e straniata della “condizione operaia” e dei mutamenti del paesaggio lombardo, ora con minore frammentarietà ci convince la maggior parte di questi versi per un serrato confronto fra il proprio dire e l’alterità, il dire degli altri, della tribù, il paesaggio e la natura.In ciò prevale un aspetto lirico-intimistico su quello corale, ma la parola altra scava la propria, il paesaggio altro prospetta il proprio, indignazione, auspicio e constatazione si tengono d’occhio a vicenda.Questa poesia ancora non prefigura, ma registra, constata, interroga, pone questioni, allestisce parallelismi anche fra culture, cita. Tutto ciò con una buona pulizia formale che non è poco di questi tempi di sciatteria, il rischio che è secolare, è la frammentarietà è l’eventualità, la rapsodicità, ma la situazione sembra addensarsi da raccolta in raccolta e fa ben sperare.Una poesia per tutte Alla mia trincea: «lì chiamerei alla mia trincea i morti / a dire che si è vivi senza salvarsi / senz’altra morte che la propria / insieme a ogni morte».

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