Il padre infedele tra conflitti e oasi d’amore

La tradizionale ricetta del pesce persico che prima leva dal menù e, alla fine, rimette, è un po’ il segno del percorso del protagonista, Glauco Revelli, del suo essere infedele a se stesso e del cercare di ritrovarsi in qualche modo, in un viaggio tra amore e disamore, mentre diventa padre e fa conti col padre chef, da cui lui, laureato in filosofia, ha ereditato mestiere e ristorante, oltre che con la moglie Giulia e la figlia Anita. Glauco cerca di capire, di immergersi in se stesso, di non perdersi nelle viscere del proprio modo di essere, di affrontare le sue infedeltà e i suoi demoni sessuali, il suo rapporto con la paternità, sprofondando nel suo essere maschio e uomo di quarant’anni al giro di boa della sua esistenza. E lo fa in maniera dura, senza infingimenti, raccontandosi in un diario in prima persona (ma con un occhio al lettore), a partire da quando la sua misoginia viene messa in crisi dallo spot di una pasta, dall’immagine di una famiglia luminosa e felice. La misoginia «vive nel tumulto della coscienza e uno alla fine viene a noia di se stesso», confessa a

quel punto, annotando che la misoginia nasca da come uno vede se stesso rispecchiato nelle donne. Ecco quindi che sarà una donna diversa, che smussa il suo rapporto violento con l’altro sesso e lo conquista, lo rende padre e poi, vinta da una lunghissima depressione post partum, lo costringe a un’astinenza sessuale di oltre un’anno, ogni volta opponendogli il suo «imperiale rifiuto», così che ricompariranno vecchi fantasmi e il demone del’infedeltà.La verità è anche che Glauco si trova padre e vinto dalla figlia: per lei accelera il passo al ritorno a casa, è lei che si sente di tradire, quando lo fa davvero o col pensiero, e non la moglie, del rapporto con la quale è come avesse cancellato la memoria precedente, prima della nascita di Anita. Il suo è un problema di comunicazione, tutto preso da se stesso, chiuso agli altri, collerico e infedele per cercare di darsi un’identità. Un racconto incalzante, implacabile e sentimentale, la traversata di un deserto pieno di oasi, di un’aridità che si misura con momenti di vita, di un vivere drammatico che non sfugge all’inevitabile ridicolo, nel continuo cercare di mostrarsi forte, affrontare quel che la vita gli mette davanti, una bambina da accudire e poi, la notte, ritrovare se stesso in finti momenti di libertà. E attorno Milano e la società dei nostri giorni (di cui Scurati è un attento analista), di cui Glauco è coscienza, visto l’occhio sarcastico con cui la vive e viste le analisi impietose di chi diventa genitore sempre più tardi, di solitudini peggiori della sua, di successo e «felicità ad ogni costo» che distruggono una vita, di fallimenti da cui magari si può ricominciare, ma solo se nel cinismo si infiltra un po’ di sentimento, almeno quello che inevitabilmente fa nascere una figlia. E in questa ambivalenza, nel suo essere attratto e respinto, nel vagheggiare l’amore e nel perderlo, quel che doveva unire che finisce per separare, è la forza viva e coinvolgente del racconto, che si misura con una sorta di inevitabile impotenza, di malinconia esistenziale su cui alla fine si stempera un sorriso di speranza: «Ma forse no. Forse sarà tutto più semplice, più lieve, più sereno. Forse mia figlia, quando dal futuro si volterà indietro, guardando oltre la spalla della tormentata narrazione paterna di questa loro comune infanzia, non ritroverà il trascurabile turbamento di queste mie pagine, ma il ricordo di un uomo gentile e della sua bambina amatissima».

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Antonio Scurati, Il padre infedele, Bompiani editore, Milano 2013, pp. 192, 17 euro

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