Il maggio del ’15, radioso o sleale? Parola a Varsori

«Guerra! La parola formidabile tuona da un capo all’altro dell’Italia e si avventa alla frontiera orientale, dove i cannoni la ripeteranno agli echi delle terre che aspettano la liberazione: guerra! È l’ultima guerra dell’indipendenza. Avevamo finito col credere che il libro del Risorgimento fosse ormai pieno e chiuso e consegnato al passato. Ed ecco che si riapre sotto questo cielo di primavera fatidica». Così scriveva il «Corriere della Sera» il 24 maggio 1915, il giorno in cui dopo tante titibanze, tensioni, movimenti pro e contro l’interventismo, appelli e proclami pubblici, l’Italia entrava nella Prima guerra mondiale un anno dopo il suo scoccare. E lo faceva schierandosi contro l’Impero austroungarico, che era stato fino a pochissimo tempo prima un alleato di Roma, stretta con Vienna e Berlino nella Triplice Alleanza. Un “voltafaccia”, quello del nostro Paese, preceduto da una lunga fase di doppiezza nei rapporti con le altre potenze europee, e suggellato dalla firma segreta (sul finire di aprile di quello stesso 2015) del patto di Londra, con cui il governo di Roma si impegnava a combattere a fianco dell’Intesa (e dunque della Francia e dell’Inghilterra) in cambio di futuri vantaggi territoriali. Quattro settimane dunque, tra l’accordo segreto vergato in barba alle alleanze ufficiali e l’ingresso nel conflitto, che descrive in questo accurato e documentato volume lo storico delle relazioni internazionali Antonio Varsori (insegna all’Università di Padova). Il volume, pubblicato da Il Mulino, torchio con cui lo studioso veneto ha già collaborato per altre pubblicazioni, si intitola Radioso maggio, mutuando l’espressione resa celebre da un discorso tenuto ad Ancona 17 anni più tardi, nel 1932, da Mussolini, nel quale l’inizio del conflitto venne usato come spartiacque fra la storia d’Italia fatta «di manovre diplomatiche, di intrighi di governo, di passioni di minoranze» e quella fatta dal popolo che irrompeva sulla scena politica (in un certo senso anticipando, almeno secondo la retorica mussoliniana, la presa di potere da parte del fascismo). In realtà, spiega Varsori, la scelta di entrare in guerra fu tutt’altro che condivisa. A gestire la fase preparatoria furono sostanzialmente in due, il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, con l’assenso del re Vittorio Emanuele III. Le trattative con l’Intesa e quelle con la Triplice Alleanza vennero condotte contemporaneamente e nella massima segretezza, lasciando del tutto all’oscuro il resto del governo, il Parlamento, i diplomatici Nel giro di pochi mesi, una minoranza favorevole all’entrata in guerra ebbe ragione della maggioranza neutralista, silenziosa e poco organizzata. Gli interventisti, invece, avevano dalla loro parte gran parte della stampa - primo fra tutti proprio il «Corriere» di Luigi Albertini - ma anche un intellettuale capace di galvanizzare le folle come Gabriele D’Annunzio. Oltre che vedere nel conflitto la possibilità di spazzar via la sinistra giolittiana, la classe dirigente liberale era ossessionata dall’idea che l’Italia fosse riconosciuta nel novero delle grandi potenze cancellando il ricordo di come si era giunti all’unificazione durante il Risorgimento: ossia, sostanzialmente, con un lungo processo diplomatico. Si cercava insomma un riscatto che, se mai ci fu, non fu mai pieno, perché costò tre anni e mezzo di guerra, oltre un milione di vite umane e fu ottenuto a prezzo di una condotta ambigua di cui l’Italia avrebbe a lungo conservato il marchio.

Antonio Varsori, Radioso maggioIl Mulino, Bologna 2015, pp. 216, 15 euro

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