Il farmaco dell’amore in un mondo-clinica

«La natura si corrompe per natura, ammalarsi, vivere», scrive la poetessa e studiosa di letteratura Gilda Policastro, al suo esordio narrativo con Il farmaco (Fandango Libri, Roma 2010). Analogamente, il rimedio utilizzato dal mortale per contrastare la malattia e la menzogna, il pharmakon di Platone, è anch’esso ambivalente, partecipe del medesimo destino che combatte: a un tempo cura e veleno. Il farmaco di cui tutti vanno alla ricerca, nel mondo-clinica dove vivono i personaggi del romanzo - un medico e le sue amanti, un’infermiera e il marito poliziotto, una dottoressa, un anziano paziente cieco - è ovviamente l’amore. Tuttavia, se le cose andassero sempre bene, se nessuno cadesse, se nessuno soffrisse o morisse, dell’amore non resterebbe neppure l’odore. Il sentimento che salva e trasfigura, ha bisogno dell’attrito con il mondo per potersi imperfettamente manifestare. Le passioni che attraversano l’umanità ospedalizzata della Policastro sono dure come uno schiaffo, venate di sopraffazione e disgusto, per se stessi e per la vita. Non v’è carità a buon mercato nel soccorso prestato all’anziano inchiodato al letto, non v’è amore scontato per il frutto cresciuto nel grembo dell’infermiera Enza. Con una sintassi ricercata, il giro di frase talvolta ellittico e sdrucciolo, ma anche con delle fulminee incursioni nel registro basso del linguaggio, Policastro letteraturizza il dolore dell’amore impossibile, degli individui che con difficoltà si ricoverano gli uni con gli altri, quasi a significare che il farmaco ulteriore, per quanto anch’esso impotente a redimere, è la scrittura.

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GILDA POLICASTRO, Il farmaco, Fandango Libri, Roma 2010, pp. 240, 15 euro

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