Il dolore di vivere del padre d’inverno

Essere padri senza essere mariti o da ex mariti. Intessere relazioni amorose senza le fatiche di spartire, con le gioie, anche, dolori, fastidi, noie e brutture della convivenza. Essere figli sognando genitori che si amano, ma accontentandosi – non avendoli – di ciò che una madre e un padre separati possono comunque dare, ciascuno con i suoi limiti e le sue qualità: una dose di affetto e una coperta di calore a sciogliere i geloni che si formano ai piedi lungo il cammino del diventare grandi.

Il male e i travagli del vivere Andre Dubus – tre matrimoni, sei figli, un omicidio alle spalle e una vita tormentata conclusa in carrozzella con una gamba amputata – li ha provati sulla propria pelle ma, soprattutto, li ha saputi narrare. Lo ha fatto in primo luogo nei racconti (per cui ha ricevuto il plauso di autori come Stephen King, John Updike, Elmore Leonard o John Irving), usciti con successo negli States a partire dagli anni Sessanta e che l’editore Marietti 1885 da qualche anno sta proponendo meritoriamente al pubblico italiano: prima (nel 2009) con Non abitiamo più qui, quindi con Le voci della luna (2011) e ora con questa straordinaria silloge intitolata Il padre d’inverno. Un libro da mandare a memoria, per potenza, profondità, incisività, qualità letteraria. Un libro che ha tutti i numeri per non passare inosservato e trovare posto magari anche nella sporta dei libri che qualche lettore di buon gusto intende portare sotto l’ombrellone o nello zaino da montagna. L’estate e il mare, d’altro canto - a dispetto del titolo “invernale” del volume -, sono un tema caro a Dubus, nato e cresciuto in Louisiana, una lunga esperienza in Marina prima di intraprendere la carriera di scrittore. L’estate è la stagione della libertà, che aiuta a dimenticare, ad esempio, le forzature cui, negli altri periodi dell’anno, è sottoposto un padre

divorziato, costretto a passare da un cinema a un ristorante, da un’auto a un bar per trascorrere il tempo concessogli con i figli, “certificando” in tal modo impietosamente, a se stesso e al prossimo, la sua condizione di paternità transitoria. D’estate no. Il litorale e il mare diventano il giardino di casa, il telo da spiaggia il letto, thermos e borsa frigo la cucina domestica. È lì - su quel litorale, su quel telo - che Peter e i figli David e Kathi, protagonisti del racconto conclusivo che dà il titolo al libro, fanno ritorno nelle giornate estive passate insieme: «Per mangiare, per bere, per riposarsi, per parlare di qualche argomento casuale, come quando un padre entra da una porta e i suoi bambini dall’altra e si incontrano al lavello della cucina per bere dell’acqua o davanti al frigo per prendere un’arancia». Ed è lì che davanti all’autoassolutoria uscita di Peter («i figli dei genitori divorziati passano sulla spiaggia più tempo di quelli dei genitori sposati») la piccola Kathi esce con la sua disarmante verità: «Vorrei che fosse estate tutto l’anno».

Con poche, felici pennellate, Dubus riesce a restituire luoghi e sensazioni come solo i veri scrittori sanno fare. La realtà esce nuda e cruda dalle sue storie, spesso amara e aspra, quando non urtante o sgradevole. I suoi personaggi, introdotti con brevi ma sapienti affreschi descrittivi, si palesano subito per quel che sono e poi si manifestano con il loro agire, nel male e nel bene. Come fa il vigilante di Gente di città, racconto fra i più dolorosi della raccolta: «Aveva sessantuno anni, un uomo alto e dal fisico imponente, ma con le spalle cadenti e i fianchi grossi, che camminava tenendo le punte dei piedi aperti, con una falcata lunga che appariva lenta. Il suo corpo, fermo o in movimento, sembrava il risultato di sessantuno anni di erosione, come se per tutta la vita ne avesse abusato, lasciandosi quel tanto che bastava per tirare avanti». Un uomo levigato e temprato dagli anni e che davanti al corpo senza vita di una ragazza rinvenuta all’alba su un pontile gelato dal freddo non si scompone, né si affretta a chiamare inutili soccorsi. Ha invece un gesto di delicatezza estrema: si inginocchia nella neve «e le accarezza la guancia ghiacciata, i capelli biondi e induriti dal freddo», quasi a voler trasmettere a quel corpo ormai inerte il suo calore residuo, a volerle regalare una laicissima e silente preghiera, fino a «sentire il proprio corpo mischiarsi, come ceneri mortuarie, alla serenità ferita dell’aria notturna», a una natura panteisticamente partecipe di quella morte e di quel dolore «nello spazio invisibile che va al di là della sua comprensione, nella fredda verità argentata delle stelle».

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