Grande Guerra, torna il classico di Blaise Cendrars

Con l’anniversario della Grande Guerra, le commemorazioni e la riscoperta della cultura di quegli anni, era inevitabile e giusto che si tornasse a porre attenzione su Blaise Cendrars, specialmente su questo suo capolavoro di ricordi e testimonianze degli anni passati quale soldato scelto della Legione Straniera in trincea, nel fango tra la Somme e il Pas de Calais, dallo scoppio del conflitto al 26 settembre 1915, quando una sventagliata di mitra gli fece a pezzi una mano. Blaise Cendrars (1887-1961) è un personaggio, via via dimenticato e riscoperto nel tempo, che animò la Parigi degli anni cubisti, reduce da una serie di avventure che lo avevano portato sino in Asia e poi a fare il bracciante in Canada, raggiunto attraverso la Russia e la Siberia, il clown a Londra, l’apicultore in Francia e altri veri mestieri, scoprendosi e definendosi però soprattutto poeta e narratore. Con le sue opere ebbe una bella influenza sulla letteratura francese dell’epoca proprio perché, come scrisse Eugenio Montale, «nel bagaglio di Cendrars c’è qualcosa di più o di meglio del cubismo poetico: c’è la sua vita, che è la più ricca e interessante che uno scrittore d’oggi possa vantare».E le pagine de La mano mozza lo dimostrano. Si pensa letterariamente a Celine, ma in realtà poi tutto è assai diverso, perché Cendrars nella battaglia si butta a capofitto, al contrario dell’autore di ‘Viaggio al termine della notté: qui il racconto, più che romanzo, è cronaca picaresca e noir (come si direbbe oggi) di bell’andamento narrativo e di crudo realismo della vita quotidiana di trincea, raccontata dal basso con la lingua e il gergo di quei soldati. A questo proposito non si può non ricordare la bella e prima traduzione italiana del libro a firma di Giorgio Caproni, cui comunque questa di Raphael Branchesi si affianca dignitosamente.«Quando ripenso ai miei uomini annidati nelle buche del settore di Tilloloy, a trenta anni di distanza ho l’immagine di noi come pidocchi nei capelli di una persona. Che cosa facevamo lì? Morivamo dalla noia, in preda alla nostalgia per le donne. Chissà se i pidocchi sono nostalgici e egoisti? Ma cosa ne possiamo sapere noi?». È comunque da questa noia, dal terrore dei cecchini, che nasce la volontà di far qualcosa, il pensare ad azioni e beffe inumane e cruente, anche pericolose e per certi versi eroiche, da sfegatati esibizionisti visceralmente romantici, tra i quali Cendrars è sempre il primo.Molti dei capitoli hanno come titolo il nome di un commilitone e, tra parentesi, la sua fine (morto, disperso, fatto prigioniero, cieco di guerra morto suicida....), vite di disperati che si svolgono alla luce dei razzi e delle cannonate in paesaggi lividi e stupendi. La guerra a Cendrars fa orrore, caos connotato da tenebre e fango, ma per reazione ha un forte impulso vitalistico che lo spinge a combattere, a rischiare per primo, primo in efferatezze come in bestemmie, dandoci un quadro umanissimo di uomini mandati al macello. «Mi ero arruolato - scrive - e come già più volte nella mia vita, ero pronto ad andare sino in fondo col mio atto. Ma non sapevo che la Legione mi avrebbe fatto bere da quell’amaro calice fino all’ultima goccia e che così mi sarei ubriacato, e prendendo una gioia cinica nello sminuirmi e svilirmi, avrei finito per liberarmi da tutto per riconquistare la mia libertà di uomo».

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Blaise Cendrars, La mano mozza, Elliot, Roma 2014, pp. 274, 19,50 euro

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