Gli intellettuali ignavi di fronte alla guerra

Luigi Meneghello e Beppe Fenoglio ci hanno aiutato a capire come la Resistenza sia stata una lotta condotta non da eroi ma da uomini. Il trionfalismo e la retorica resistenziale rendono spesso un cattivo servizio alla Resistenza stessa e alle persone comuni che vi impegnarono i propri limiti. Raffaele Liucci inasprisce questa chiave di lettura fino a istruire un processo postumo a chi, tra gli intellettuali italiani, attraversò il secondo conflitto mondiale e la guerra civile «con un brivido di compiacimento per essere scampato alla rovina altrui», mostrando di preferire «il disimpegno all’impegno, e lasciando tracce e reperti di questa dissociazione». Paradigmatico l’atteggiamento di Cesare Pavese, testimoniato ne La casa in collina (1948), la quale finisce per essere identificata con il luogo esemplare del ritiro impolitico dalla storia, in cui in tanti cercheranno rifugio. Nessuno si salva dal tiro al piccione esercitato da Liucci, e non solo allorché egli volge lo sguardo a una destra contigua al fascismo e storicamente incline al pessimismo antropologico: non il padre della Costituzione Piero Calamandrei, definito nientemeno che un «tardivo scopritore della Resistenza», ma neppure, tra gli altri, Carlo Levi, autore di un breve saggio (Paura della libertà, 1939) e di un romanzo (L’orologio, 1950) nei quali la politica in quanto tale, per l’autore, è assimilata a un incubo dal quale è meglio stare alla larga. Pur essendo in più punti opinabile, l’ampia ricostruzione di Liucci ha il merito di salvare dall’oblio alcuni testimoni del Novecento, di cui da tempo non si parla più, come gli scrittori Antonio Barolini, Guglielmo Petroni e Ugo Facco De Lagarda.

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