Giochi di specchi tra vero e finzione nell’ultimo Roth

Dopo quella lettera scritta da Philip Roth al suo più celebre eteronimo romanzesco, Nathan Zuckerman, posta in apertura a I Fatti, si sarebbe tentati di credere fedele l’autobiografia che segue. Al termine di una prima lunga fase creativa che lo conduce alla piena affermazione letteraria, lo scrittore ebreo americano, afflitto da un esaurimento nervoso, si dichiara stanco dell’intreccio di realtà e immaginazione all’origine di tutte le sue opere, affermando, in un tentativo di ricapitolazione forse terapeutica, di voler tornare e limitarsi alla fonte primaria dell’ispirazione, la vita quale essa è: the facts, appunto. Tra questi, in primo luogo, un’infanzia rievocata per ambienti e figure esemplari, con le immagini di uno sthetl, il villaggio est-europeo della diaspora ebraica, ricreato in sintesi a Weequahic, il quartiere della cittadina di Newark in cui Philip Roth nacque nel 1933. Il riparo familiare è incarnato da un padre modesto e laborioso, la cui carriera è condizionata dall’appartenenza etnica prima ancora che dal livello di istruzione, e da una madre esemplarmente premurosa, accanto ai quali ruotano tutta una serie di figure mitiche tra cui

l’idiota Leroy o il sarto Shapiro. Oltre la siepe domestica si muove il mondo allettante e minaccioso dei gentili, dove il giovane ebreo assiste a cruenti episodi di antisemitico che non riescono comunque a compromettere la ferma volontà di costruirsi una vita nell’alveo di quell’unica nazione democratica cui si sente legato «indipendentemente dall’ingiusto pregiudizio dei cosiddetti migliori e dal violento odio di alcuni dei peggiori». L’eterno rovello ebraico, tra aneliti a un’impossibile appartenenza all’altro da sé, rifugi nell’identità tradizionale e totale disincanto - da cui un’ironia dissacratoria unita a soccorrevoli sensi di colpa - segna anche il cammino sentimentale di Roth, sconclusionata gincana tra universi femminili molto differenti. Le passioni dello scrittore spaziano dalla classica figlia emancipata della buona borghesia di matrice anglosassone alla tormentata vittima di un padre alcolista, Josie, che lo trascina in una spirale di intollerabili molestie e inspiegabile remissività, fino all’accettazione di un matrimonio le cui devastanti conseguenze hanno fine solo con la morte della donna in un incidente stradale; e la vita di Josie, reinventata nella parziale finzione romanzesca, fornirà ampio materiale alla stesura di Quando Lucy era buona. Ma è proprio al cuore di questo processo di trasfusione della vita nell’opera e soprattutto alla pretesa di tracciare un discrimine rasserenante tra le due che Roth stocca il colpo finale: un colpo inferto da sé contro se stesso, svelando le ipocrisie intrinseche alla pretesa di oggettività. A prendere parola, nella lettera conclusiva, che suona come un controcanto, è Nathan Zuckerman, destinatario della missiva iniziale nonché alter ego dell’autore in un intero ciclo di romanzi, che accusa l’indulgenza con cui il suo padre letterario tratta quella che ci viene ipocritamente comminata come l’autentica versione delle cose. L’unica, complessa verità possibile, ammonisce Zuckerman, sono io, quell’invenzione in cui la dose di vissuto non può essere determinata in base al criterio di una risibile fedeltà. Il campione positivo o la vittima modello in cui si trasforma il Roth autobiografico sono perspicaci favole, e anche la cattiva moglie Josie è oggetto di riesame sotto una lente capace di variare prospettive e punti di vista. «Il tuo compito è sempre stato quello di intrecciare i fatti con l’immaginazione» tuona l’inquieto eroe dei grandi romanzi, «ma qui tu non li intrecci, li separi, togli la pelle alla tua immaginazione, disimmagini il lavoro di una vita». E il gioco degli specchi, dentro e fuori la creazione letteraria, ancora una volta non ha fine.

Philip Roth, I Fatti - Autobiografia di un romanziereEinaudi, Torino 2013pp. 216, 18,50 euro

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