Eraldo Affinati, i tanti volti di un “viaggio”

I libri di Eraldo Affinati raccontano sempre di un viaggio: un viaggio reale, nello spazio, ma che pian piano diviene altro, viaggio nel tempo, indagine sul passato, che però si faccia trampolino per una visione del futuro, partendo da una riflessione interiore. I suoi racconti hanno così una forza che è nella vitalità e curiosità dell’autore e assieme nel suo modo di vedere quel che è accaduto all’uomo occidentale, specie nell’ultimo secolo, nel non tirarsi indietro davanti anche all’orrore, ma interrogarsi legando il suo passato e della sua famiglia al passato collettivo, per capire di che pasta e di che animo siamo fatti: «Le azioni che compiamo non riguardano soltanto noi. Non ci sono frontiere della vita interiore». È quel che accade anche in questo Vita di vita, dove i vari piani e viaggi si inseguono, si sovrappongono, ma alla fine riescono a intersecarsi creando un momento di verità e di poesia coinvolgente, di senso che ci costringe a interrogarci su noi stessi: perché Affinati è un narratore vero, insegue storie, ma poi è l’anima morale a interessarlo. Come è qui con la storia di Khaliq, ragazzo originario della Sierra Leone che ha avuto come allievo alla scuola della Città dei ragazzi, dove lo scrittore insegna, che torna in Africa alla ricerca della madre Khalifa. Se l’avesse ritrovata, Affinati aveva promesso che sarebbe andato a conoscerla, cosa che naturalmente fa, mettendosi in viaggio con l’amico Gerry.Quindi abbiamo Affinati che si reca in Gambia, a Sare Gobu, dove è la donna e il figlio, e poi torna. Abbiamo Khaliq (che parla un italiano tutto suo e senza doppie), di cui si rievoca il viaggio terribile come possiamo solo immaginare per arrivare in Italia, che torna a cercar la madre, poi torna a Roma (dove ora, o almeno quando Affinati scriveva, lavora in un bar e fa meravigliosi cappuccini) e poi non si sa, perché uno come lui «non sta mai fermo per troppo tempo in un sol posto».Quindi c’è il passato, quello della storia di Khaliq di sangue, fughe e violenza nelle lotte tribali africane (la madre lo lascia in un campo profughi per andare a riprendere la sorella, dopo che le hanno ucciso un altro figlio grande e il marito), che si lega inevitabilmente alla paura e la morte delle due grandi terribili guerre del Novecento, attraverso la testimonianza di militari in trincea nella Grande guerra e quella di prigionieri nelle carceri nazifasciste, spesso giovani come gli studenti di Affinati, cui lascia questi epistolari come lettura estiva. I libri di Affinati affondano le proprie radici nel nostro tempo e nella nostra vita, si interrogano con pietà ma senza mai indietreggiare davanti a nulla, tantomeno davanti a ragazzi di tutto il mondo, feriti e spersi, provocatori e vitali, alle cui spalle stanno magari gli occhi penetranti, lo sguardo indagatore e ardente di una madre dalla vita tragica come quella di Khalifa. E lo scrittore dice di sentirsi «uomo incatenato. Non posso inventare niente. Sono condannato all’esperienza», che non è un limite per i suoi viaggi, ma il punto di partenza. Vita di vita è il commento di Khaliq alle foto scattate da suo professore nel villaggio africano, fatte scorrere sul telefonino. La verità è che gli alunni sono un po’ figli e «un figlio ti conduce dove non pensavi di andare. Ti porta in un altro luogo. Lontano dal tuo progetto» che tu devi accettare «per non finire in un vicolo cieco assieme a lui».

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Eraldo Affinati, Vita di vita, Mondadori, Milano 2014, pp. 166, 17 euro

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