Effetti speciali e tante emozioni per Joël Dicker

«Un bel libro, Marcus, non si valuta solo per le sue ultime parole, bensì sull’effetto cumulativo di tutte le parole che le hanno precedute. All’incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, dopo averne letto l’ultima parola, il lettore deve sentirsi pervaso da un’emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte le cose che ha appena letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito». Se è vero l’ultimo consiglio che lo scrittore-maestro Harry Quebert regala allo scrittore-discepolo Marcus Goldman, allora questo è un bel libro. Perché quando lo chiudi, dopo aver divorato senza sosta un tomo di quasi 800 pagine ed esserti pressoché inutilmente provato a individuare l’autore del delitto su cui è costruita l’intricatissima trama, ti resta addosso esattamente quella sensazione di vuoto che lasciano le cose belle una volta finite. Sai che ti mancheranno, che non avrai più la compagnia della picco

la e sfortunata Nola, dello scorbutico quanto testardo agente Perry Gahalowood, dell’ex reverendo Harleysta David Kellergan, dello sfigurato pittore Luther Caleb, delle travagliate donne (Tamara e Jenny) della famiglia Quinn. E ti mancheranno gli scenari in cui si muovono i personaggi del romanzo: le spiagge atlantiche, i gabbiani e i tramonti spazzati di Aurora, nel New Hampshire, con la villa di Goose Cave, teatro dell’amore impossibile fra Harry e Nola, e i tavoli in legno del Clark’s, il ristorante dove Quebert ha scritto il suo capolavoro. Tutto vero. Ma c’è un ma. Anzi, ce ne sono più d’uno a impedire di collocare il travolgente “giallo” del ginevrino 28enne Joël Dicker fra i libri indimenticabili, a dispetto degli entusiasmi eccessivi di qualche critico facile agli innamoramenti. La verità è che La verità sul caso Harry Quebert è un ottimo prodotto per il mercato; costruito ingegnosamente, più che discretamente scritto e ricco di tutto quanto serve a tenere il lettore attaccato alle sue pagine: pathos, colpi di scena a grappoli e l’imbattibile “coppia regina” amore-morte - con la damigella d’onore della fama (o meglio del desiderio di fama tipico degli scrittori e di ogni uomo ambizioso) - a scuotere cuori e cervelli. Ma se ciò basta, eccome, a vendere copie (non a caso il romanzo campeggia da settimane nel podio della classifica italiana dei più venduti) non può bastare a renderlo un capolavoro. Mancano almeno due ingredienti fondamentali: l’approfondimento psicologico dei personaggi (in molti casi piatti e stereotipati) e la cura nei dialoghi, talora involontariamente surreali. Non convincono, infine - ed è la pecca più grave - il tono e la sostanza dell’epistolario fra Nola e Quebert, sul quale nasce e si alimenta la loro relazione impossibile. Uno scambio di parole che sembra estrapolato da un romanzo d’appendice , banale e zuccheroso, che non aiuta certo a capire l’origine del sentimento che esplode fra i due protagonisti e che fa da miccia al deflagrare dell’intera storia. Con qualche accortezza, una maggior cura e un po’ di lavoro (anche sulla scrittura, perfettibile), saremmo oggi di fronte a qualcosa di più di un libro avvincente e godibile. Peccato.

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Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert, Bompiani, Milano 2013, pp. 775, 19,50 euro

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