Dürrenmatt, classico ritrovato oltre i generi

Se amate i gialli questo è un libro che non può mancare nella vostra libreria. Ma non può mancare nemmeno se non li amate, o addirittura se vi sono venuti a noia dopo l’esplosione che ne ha fatto - nelle molte possibili “varianti” (poliziesco, noir, thriller, hard boiled, ecc.) - il genere forse più venduto e oggetto di accese disamine critiche degli ultimi vent’anni. Sicuramente quello su cui frotte indiscriminate di scrittori, anche in Italia, si sono buttati con risultati alterni, nella speranza di trovare un pubblico e nella convinzione di poter raccontare, attraverso di esso, le trasformazioni di una realtà e di una società sempre più difficili da leggere, da capire e, per conseguenza, da porre quale oggetto di narrazione. Ma Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt, forse il maggiore scrittore svizzero e indubbiamente uno dei maggiori del Novecento europeo, è qualcosa di più ed è qualcosa d’altro, a dispetto della trama evidentemente poliziesca (c’è un omicidio, c’è un commissario di polizia con la sua squadra di agenti, c’è un giudice, ci sono degli indiziati). È un libro che va al nocciolo delle cose, ai temi primi e ai temi ultimi dell’esistenza, all’eterno dilemma fra il bene e il male, ai nodi indissolubili del rapporto fra il reato e la pena, fra la libertà e la giustizia. È un classico, in altre parole, e come tale varca i confini del tempo e dello spazio, tant’è che a sessant’anni suonati dalla sua uscita in libreria (su rivista nel 1950/51 e in volume nel 1952) resta di un’attualità sconvolgente e regala emozioni imperiture ai lettori di qualsiasi latitudine. Bene ha fatto, dunque, Adelphi a riproporlo al pubblico italiano nell’ottima traduzione di Donata Berra e con la consueta cura editoriale (l’autoritratto in copertina è inquietante quanto efficace nell’invitare ad aprire il volume), riportando alla memoria dei meno giovani anche la versione cinematografica del libro, realizzata nel 1972 da Daniele D’Anza con tre attori del calibro di Paolo Stoppa, Ugo Pagliai e Glauco Mauri. La storia della contesa fra il commissario Bärlach e il “rivale” Gastmann, figlia di una scommessa folle (compiere omicidi davanti a testimoni e riuscire a farla franca) che determinerà l’esistenza dell’uno e dell’altro, si legge con avidità e pur inoltrandosi - come si diceva - nel terreno insidioso del “dilemma filosofico”, accompagna il lettore fino al trascinante finale sostenuto da una scrittura magnifica e da un ritmo narrativo che il grande scrittore, drammaturgo e pittore elvetico possedeva già in maniera sorprendente a soli trent’anni.

La scena finale del “giudizio”, con Bärlach avidamente buttato su una tavola imbandita di ogni ben di Dio a dispetto dello stato di salute, trascinato da un’energia vitale violentissima, e l’ambizioso poliziotto Tschanz a subirne muto e attonito “l’arringa”, ha una potenza e una forza visiva quasi cinematografica che vale, da sola, i 15 euro del prezzo di copertina e che ricorda, pur nelle non poche differenze, la scena dostoevskjiana del “Grande Inquisitore”, nei Fratelli Karamazov. Da leggere e rileggere, questo sì, senza annoiarsi.

Friedrich DürrenmattIl giudice e il suo boia (traduzione di Donata Berra)Adelphi, Milano 2015, pp. 121, 15 euro

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