Delirio di perfezione nell’“abisso” di Lucy

«Oh, perché le persone non possono essere buone? Dentro, sono solo ossa e nervi e sangue, e reni e cervello e ghiandole e denti e arterie e vene. Perché, perché non possono semplicemente essere buone?». Così pensa affranta la poco più che ventenne Lucy Nelson, allorché la sfiora il pensiero che, tra la mera biologia che ci vuole tutti uguali e il carattere individuale di una persona, si spalanca un abisso. Dapprima figlia di un padre alcolizzato, Duane, che lei non esita a denunciare e a fare incarcerare, poi moglie del giovane Roy Bassart - reduce della Seconda guerra mondiale -, Lucy incarna sino alla follia la missione e il dovere di una femminilità che non deflette innanzi all’impossibilità che la vita si adegui all’ideale e che gli uomini, intesi come gli appartenenti al genere maschile, siano responsabilmente tali sino in fondo. Responsabili secondo quale modello di vita? - pare chiedere più volte lo scrittore. Non senza una punta di misoginia, Roth nel suo terzo romanzo originariamente apparso nel 1967 e ora riproposto da Einaudi, all’indomani dell’annuncio con cui l’81enne autore di Pastorale americana ha dato l’addio alla scrittura, narra con impressionante precisione descrittiva e con la consueta maestria nei dialoghi l’inesorabile avvitamento di due famiglie intorno a un delirio di perfezione. Un delirio con il quale Lucy dà voce all’introversione di un sacrificio, ovvero al suo personale e grottesco adeguamento al ruolo di figlia, di moglie e di madre, secondo i canoni della piccola borghesia del Midwest americano all’epoca degli “Happy Days”, che qui solo apparentemente allontanano Roth dall’ambientazione newyorkese e dal consueto racconto dell’identità ebraica.

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PHILIP ROTH, Quando lei era buona, Einaudi editore, Torino 2012, pp. 308, 20 euro

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