Barnes “rilegge” la vita di Flaubert e i... pappagalli

Una rete si può definire in due modi: strumento a maglie per catturare pesci; ma anche, ribaltando l’ottica, una collezione di buchi tenuti assieme da uno spago, secondo la definizione di uno spiritoso lessicografo, scrive Julian Barnes, concludendo: «Lo stesso si può fare con una biografia. La rete a strascico si riempie, il biografo la issa a bordo, seleziona, rigetta in mare, stocca, filetta e vende. Ma proviamo a considerare ciò che non cattura: è sempre assai di più di ciò che ha preso».Ed è questo il principio e il senso di questa sua curiosa e personalissima biografia di Gustave Flaubert, scritta sapendo, e volendo dimostrare che anche il più esperto dei biografi non potrà raggiungere mai la garanzia di avere «la meglio su un soggetto che, vedendolo arrivare, abbia deciso di divertirsi un po’ a sue spese?» Che è poi quel che accade al medico inglese Geoffrey Braithwaite, protagonista del romanzo di Barnes, messo sulle tracce del suo autore di culto, Flaubert appunto.Così l’ambiguità nei confronti di Flaubert e della ricostruzione del suo vissuto è presente sin dalla prima pagina, con quella visita alla statua dello scrittore in Place des carmes a Rouen, scoprendo che non è la statua originale, trafugata a suo tempo dai tedeschi per usarne il metallo a fini militari nel 1941. Allo stesso modo all’Hotel-Dieu, l’ospedale dove lavorava il padre di Gustave e dove questi passò l’infanzia, oggi trasformato in museo, un po’ di medicina e un po’ di letteratura, scopre il pappagallo impagliato, che Flaubert ottenne in prestito dal museo di Rouen e che tenne sul proprio scrittoio scrivendo quel meraviglioso racconto che è Un cuore semplice, dove la povera Félicité, al momento della morte, trasfigura il suo uccello impagliato in una sorta di spirito santo che vola «nei cieli che si schiudevano». Proseguendo le proprie ricerche, di Pappagallo il nostro autore ne troverà un altro, egualmente garantito autentico. Insomma, da subito, una serie di doppi, di ambiguità, di rimandi interni, cercati e elencati nell’impossibile inseguimento di un senso certo, di riuscire a cogliere ciò che non lo è per sua natura: l’ineffabile che fa di un uomo un artista. Questo inserendo una cronologia della vita di Flaubert, elencando e discutendo fatti e persone, citando pensieri, lettere, brani di libri, costruendo una biografia, per molti versi impropria, anche perché porta in sé quello sguardo ironico da cui nasce. Ma è proprio quel che rende queste pagine godibili e leggibili come un romanzo.Se il primo pappagallo parla e rivela a chi è sulle tracce di quel che rappresentò, il secondo sembra volersi prendere gioco di tali indagini, e il povero Braithwite, meno splendente e chiaro di quel che vorrebbe intendere il suo nome, cerca allora di capire, di scoprire quale sia il vero. Ma anche qui senza possibilità di successo, perché alla fine saprà che gli uccelli impagliati si consumano, si rovinano, che al museo di Rouen ce ne erano una cinquantina e ne sono rimasti tre e Flaubert il suo, dopo l’uso lo aveva restituito. In quest’ottica, ogni avvenimento, ogni particolare, ogni dettaglio che la ricerca fornisce, finisce per aggiungere qualcosa al ritratto complessivo, ma anche per suscitare nuovi e diversi interrogativi e ipotesi. Un romanzo sull’arte insomma, sul suo mistero imprendibile, sulla sua polisemia e ricchezza infinita di significati. Un romanzo, alla fine, sull’uomo e la difficoltà di dare un senso alla vita, che è la direzione che prenderà poi con sempre più decisione Barnes, scrivendo due grandi libri, Il senso di una fine e Livelli di vita che gli hanno dato il successo internazionale.

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Julian Barnes, Il pappagallo di Flaubert, Einaudi, Torino 2014, pp. 227, 19 euro (traduzione di Susanna Basso)

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