«Sarà buona politica -/ impegnata contro ignavia e malaffare,/ arroganza e connivenza:/ quell’amalgama infernale/ a cui si oppone ancora/ chi non intenda cedere/ a un incombente/ sentimento di impotenza». È canto civile, e insieme appello ai sentimenti, racconto di vita quotidiana, e ode alla natura la nuova raccolta di versi di Franco Marcoaldi, La trappola. Al centro del racconto di queste pagine intense c’è l’animale, piccolo o grande, insetto o topo, che striscia e corre ma finisce sempre in gabbia, metaforica o reale che sia. O, nel peggiore dei casi, con il cappio al collo. Solitario protagonista de La trappola, il residuo animaletto è condannato all’abbandono: «In gabbia canta l’uccello/ canterino, io invece, senza coristi/ al fianco, rimango senza fiato». Una solitudine che attraversa il racconto, che segna la voce narrante, anche nei gesti più semplici come una passeggiata mattutina. Umano, ma un po’ anche essere vegetale, albero con metà della chioma esposta alla luce e metà sotterranea ma non meno ampia e significativa, a nutrirsi d’acqua. A volte chiuso nel corpo che invecchia, come uno scafandro pesante e insulso. Esseri viventi, tutti rimasti in trappola nell’universo e forse è in trappola, azzarda Marcoaldi, anche lo stesso Dio che lo ha creato. La trappola è quella del capitale, dell’economia che circonda con il suo acciaio il sentire comune. È la politica che tradisce, e anche un po’ la tecnologia, la potenza che come dopo il terremoto in Giappone, scopre la sua intima fragilità. Il verso di Marcoaldi è asciutto e mai retorico, pur nella profondità della denuncia civile, nella varietà del ritmo, che è fluido fino a sembrare marino.
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