«Il caso di Indi e la dignità della vita e della morte»

La lettera del medico Pino Carrera

Adesso che la piccola Indi è diventata un angioletto, vorrei proporre alcune riflessioni sulla vicenda che l’ha vista, suo malgrado, protagonista.

La sindrome da deplezione mitocondriale, patologia da cui era affetta, è una condizione rarissima e inguaribile. La maggior parte dei bambini colpiti muore entro i due anni di età per il progressivo venir meno delle funzioni di tutti gli organi. Non esistono (in nessun paese del mondo) cure specifiche e le terapie che vengono poste in essere servono solo a prolungare la sopravvivenza (respirazione artificiale, alimentazione forzata) e a contrastarne alcuni sintomi (antidolorifici).

Quando si arriva a formulare una diagnosi infausta, la prima reazione che arriva dai genitori è un comprensibile atteggiamento di rifiuto, come si è verificato con la mamma ed il papà di Indi. È compito dei medici (non dei politici, degli avvocati o dei rappresentanti di associazioni) dare ai genitori informazioni chiare e corrette, far capire i limiti della scienza medica e guidarli all’accettazione della realtà.

Il passo successivo è la decisione sulla condotta assistenziale da tenere che deve in primo luogo assicurare l’interesse del bambino garantendogli il maggior benessere possibile.

A mio modo di vedere, i giudici inglesi hanno agito correttamente: Indi non aveva alcuna possibilità di sopravvivenza nè di miglioramento e la prosecuzione di metodiche assistenziali invasive era solo un prolungamento della tortura. Non a caso in Inghilterra (dove i politici non fanno i tuttologi come da noi) la decisione non ha avuto il clamore mediatico che si è registrato in Italia, anche grazie a dichiarazioni di persone sulla cui competenza scientifica ed etica è lecito avere dei dubbi.

L’unico appunto che può essere mosso ai giudici inglesi, è il non aver consentito che il fine vita avvenisse nella residenza della famiglia.

Una quindicina di anni fa, avevamo tenuto a Lodi un convegno dedicato agli aspetti medico-legali ed etici del trattamento del bambino senza futuro.

In quell’occasione, il gesuita Padre Carlo Casalone (medico, filosofo, teologo, attuale presidente della Fondazione Martini, collaboratore della sezione scientifica della Pontificia Accademia per la vita e docente di Teologia Morale alla Pontificia Università Gregoriana) aveva dichiarato che in troppe occasioni l’intensità e l’aggressività delle cure sono sproporzionate per le condizioni del paziente e che determinati eccessi si sarebbero potuti evitare solo stabilendo la punibilità dell’accanimento terapeutico.

Del resto, Papa Giovanni Paolo II aveva più volte nei suoi interventi rimarcato l’importanza della dignità della vita e della morte e, a quanto sembra, nei suoi ultimi giorni di vita ha rifiutato ogni accanimento terapeutico.

Un’ultima triste considerazione. Trovo vergognoso e squallido che in una nazione che non riconosce la cittadinanza ai bambini nati sul suo territorio da genitori stranieri si arrivi a convocare un Consiglio dei ministri straordinario con all’ordine del giorno, come unico punto, la concessione della cittadinanza ad una bambina inglese sconosciuta.

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