«Qua rischiavo il burnout, in Madagascar sono rinata»

Vittoria Borgonovo, infermiera di 29 anni di Sant’Angelo, due master, all’estero come volontaria per salvare vite

A ottobre, stava rischiando di andare in burnout, di fare un esaurimento. La situazione sanitaria, in Lombardia, è critica: turni massacranti e scarsi riconoscimenti. Ogni volta che si propone un progetto ai piani alti si riceve in cambio una bocciatura, per ragioni, per lo più, burocratiche. Così Vittoria Borgonovo, 29 anni di Sant’Angelo, e una passione per la professione di infermiera nel cuore, quando ha letto dell’associazione “Amici di Ampasilava” di Bologna e della possibilità di andare nel loro ospedale ad Andavadoaka, in Madagascar, come volontaria per 3 mesi, ha fatto subito le valigie. Mai decisione fu più azzeccata.

Lì, il clima è completamente diverso, si lavora per salvare la gente, senza troppi fronzoli. Gli strumenti a disposizione sono pochi, a fare la differenza sono la capacità clinica dei professionisti e anche la loro umanità. Borgonovo scorre le immagini sul telefono: mare, bambini che giocano con un granchio e la pediatra che ne approfitta e si china per visitarli. Poi piedi gonfi e pieni di ferite purulente caratteristici di chi cammina senza scarpe nella foresta e volti con grosse ferite da colpi di machete. Per quanto riguarda la giustizia in Madagascar, infatti, impera la moda del fai da te.

La giovane professionista è tornata a gennaio da Andavadoaka, ha appena firmato un contratto con l’ospedale di Pavia ed è piena di buoni propositi: ha due master alle spalle, uno in area critica e l’altro in vulnologia. Mai come in questo frangente le due specializzazioni si sono rivelate cruciali. «Molti gli episodi che non dimenticherò mai - racconta - . Lì, dove eravamo noi, tra l’altro unico ospedale pubblico di quel paese, non esistono emoteche. Quando le persone avevano bisogno di trasfusioni, noi operatrici andavamo di là, in una stanza, e dopo le analisi di rito, facevamo una donazione di sangue, direttamente a caduta, nella sacca; quella stessa sacca, poi, veniva appesa al tripiede per la trasfusione del malato. Quando succedeva questo e i pazienti si salvavano, i parenti capivano che la situazione era stata grave. Ci inseguivano sulla spiaggia con un’anatra viva in mano o un casco di banane, i loro doni per ringraziarci. Le persone venivano anche da lontano per farsi curare, con un carretto di legno trainato da uno zebù. Abbiamo visto pazienti con masse tumorali enormi, mai viste prima, lebbra, malaria, malattie sessualmente trasmissibili. Abbiamo visto ragazzi giovani morire soffocati per un ascesso a un dente perché prima di venire in ospedale andavano dallo sciamano, ma anche donne gravide di 17, 20 anni, con il feto senza vita in grembo da mesi. Abbiamo visto donne che dovevano partorire arrivare in condizioni tragiche, sottoposte al cesareo d’urgenza da uno studente di medicina non ancora laureato che aveva imparato dalle equipe chirurgiche italiane». È stato difficile partire, ma «è stato difficile anche venir via - racconta la dottoressa -. Ci siamo trovati insieme noi giovani, in quella situazione. Abbiamo condiviso tante emozioni. Ogni tanto ci sentiamo, abbiamo in testa dei progetti sull’assistenza vulnologica pediatrica e tanto altro. In Italia tutti i progetti che si propongono per migliorare la situazione vengono bocciati, là invece, c’è tanto spazio per realizzare cose nuove e utili a tutti».

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