La dottoressa ucraina e la figlia in fuga
dalla guerra “adottate” da Codogno

La 42enne Viktoriia Horbenko ha trovato ospitalità in Italia e lavora nell’ospedale della Bassa

A quelli che restano, a quelli che partono, a quelli che partono per restare: “accanto”. È un bel posto dove fermarsi, “accanto”. Serve coraggio però. Lei, Viktoriia Horbenko, 42 anni, medico neurologo di origini ucraine, l’ha conosciuto il giorno in cui è nata Alla, occhi azzurrissimi e un’ipersensibilità a tutto che all’inizio non aveva un nome. Ma presto ha assunto la diagnosi di autismo. È stata sola Viktoriia a crescerla. Il “genitore”, “padre” non lo è mai stato. L’offensiva militare russa all’Ucraina lanciata nel febbraio 2022 ha travolto le esistenze di madre e figlia, costringendole nell’aprile di un anno fa a scappare. Oggi vivono a Codogno, dove la dottoressa ha trovato lavoro all’ospedale cittadino. All’alba di questo nuovo giorno l’abbiamo incontrata.

Se la sente di raccontarci come è arrivata fin qui, com’è riuscita a lasciare il suo Paese nel mezzo della guerra, sola, con sua figlia?

«Probabilmente dovrei iniziare dicendo che mia figlia si chiama Alla, ha 14 anni ed è il senso della mia vita, anche se crescere un bambino con autismo è molto difficile. Ho sempre desiderato avere un bambino ed è per questo che quando sono rimasta incinta ho deciso di tenerlo, nonostante suo padre ci avesse lasciato a causa di un’altra donna incinta. Ovviamente non lo sapevo. Sei mesi prima della guerra io e Alla ci eravamo appena trasferite nel nostro nuovo appartamento e 23 giorni prima della guerra avevo iniziato a lavorare in una nuova clinica privata vicino a casa, così da non dover più attraversare il traffico di Kiev, e non vedevo davvero l’ora che arrivasse la fine del contratto militare del mio fidanzato. Ma il 24 febbraio alle 5 del mattino, mentre ero nel mio letto al 21° piano, ho visto e sentito i primi esplosivi dalla finestra. Dalla mia finestra si vedeva un quarto della città. Non ho capito cosa fosse successo, nessuno ha capito, non c’erano notizie».

Com’è il suo ricordo di quel risveglio sotto assedio?

«Poche ore dopo sono apparse le informazioni che eravamo stati attaccati e che era iniziata una guerra. I primi giorni era quasi impossibile lasciare la città, ma è stato meglio così, dato che volevo andare dai miei amici fuori Kiev, nella regione di Bucha, che poi è stata occupata. I miei amici e le loro famiglie erano in grave pericolo, ma grazie a Dio sono sopravvissuti tutti. Semplicemente non avevo benzina per raggiungerli. Il mio appartamento era al 21° e 22° (ultimo) piano di una grande casa, in una zona abbastanza “tranquilla” di Kiev nei primi giorni della guerra, ma spesso i messili volavano vicino a noi. Un amico mi ha suggerito di trasferirmi nell’appartamento di sua sorella, non lontano ma in un edificio basso. Ho escluso ogni possibilità di lasciare l’Ucraina, perché Alla era molto aggressiva in quel momento e niente la calmava. Ho fatto scorta di cibo, acqua e tutto il necessario».

Cosa è successo poi, che le ha fatto cambiare idea?

«Avendo lavorato per molti anni in una clinica internazionale, ho avuto molti ricchi pazienti stranieri a cui ho inviato messaggi di aiuto per i bambini disabili. Alcuni hanno risposto e mi hanno inviato denaro, che ho inviato ad amici e sconosciuti, genitori di bambini con disabilità. Non ci crederete, ma anche 20-30 euro all’epoca erano tanti soldi. Uno dei miei pazienti dalla Lituania, non molto ricco, ma solo una brava persona, ha inviato molte medicine che a quel tempo non si trovavano e io le ho inviate ad altri genitori. Molti mi hanno detto che dovevo lasciare l’Ucraina, ma lo avevo sempre escluso. Poi ho ricevuto un messaggio da un’amica che era andata con la figlia con la sindrome di Down in Austria, che diceva che c’era un posto per 3 mesi per la riabilitazione di un bambino con autismo e dove vivere in Italia. Ho risposto a quel messaggio spiegando tutto onestamente, che Alla era una bambina con un grave autismo, anche aggressiva, ma mi è stato risposto che ci avrebbero accolto. Non sapevo dove stavo andando né da chi. Avevo solo il numero di telefono di Svetlana, che ho scoperto poi era in Italia da 20 anni mentre il marito lavorava nel reparto di radiologia di Codogno. Sono stati loro a invitarci. Il mio fidanzato e mio fratello sono rimasti molto sorpresi che avessi cambiato idea, ma hanno insistito sul fatto che dovevamo andare in un posto sicuro. Così in 3- 4 giorni ho raccolto le nostre cose e siamo partite. Era la prima volta con mia figlia e per di più all’estero. È stato difficile, Alla era sempre nervosa e mi picchiava anche durante il viaggio. In Ungheria sono rimasta molto sorpresa dal proprietario di un hotel che non mi ha permesso di pagare per l’alloggio e la cena. Poi siamo arrivate a Codogno, dove Svetlana con il marito e il figlio piccolo ci hanno accolte vicino alla sede della Caritas, dove avremmo dovuto abitare».

Com’è stato l’impatto con questa nuova realtà?

«L’ufficio della Caritas ha una stanza con bagno e cucina in un corridoio comune, e per noi era come un hotel a 5 stelle. La Cooperativa Amicizia è il posto che ho sempre sognato per mia figlia, dopo 3 mesi ho chiesto a Monica (Giorgis ndr) quanto potevamo restare alla cooperativa e lei mi ha risposto “quanto avremmo voluto”, perché una Fondazione ha dato un contributo per mia figlia e per questo li ringrazio moltissimo. Ho deciso di andare a Kiev e vendere il mio appartamento per trasferirmi in Italia, dove ho deciso di fare la nostra nuova casa».

Cosa significa crescere una figlia “sensibile” come Alla?

«Ho dovuto lavorare molto duramente, sebbene sia stato positivo che abbia avuto l’opportunità di unire il lavoro di neurologo con la ricerca clinica e così provvedere a noi. I miei genitori mi hanno aiutata, ma vivevano in un’altra città a 600 km di distanza. Io all’epoca della sua nascita ero un neurologo molto giovane e all’università non studiavamo nemmeno una malattia come l’autismo, quindi la prima cosa che abbiamo notato in lei è stata una disabilità uditiva. Quando aveva quasi un anno mi hanno detto che non sentiva e mi hanno consigliato gli apparecchi acustici. Le ho comprato i migliori, ma dopo aver iniziato a indossarli non ha iniziato a sentire meglio, anzi, le sue condizioni sono peggiorate. Da allora la mia vita è cambiata. Dall’età di 2 anni ho costantemente fatto in modo di migliorare le sue condizioni: asilo privato, scuole private, corsi di sviluppo, logopedisti, trattamento farmacologico, anche sperimentale. Tutto ciò che era disponibile nel mio Paese. Alla ed io abbiamo anche giocato a calcio, suonato il piano, abbiamo pattinato e a nuotato insieme. Prima del Covid volevamo anche entrare nella squadra di nuoto paralimpico, quando è apparsa la nuova disciplina del nuoto per persone con disturbi cerebrali. A causa della sua aggressività ho dovuto portarla via da una scuola privata e negli ultimi 7 mesi prima della guerra è stata a casa con una tata. Ho un fidanzato che accetta Alla così com’è, ma partecipa alla guerra, che all’inizio era solo a est, da 9 anni, e non ci vediamo da quasi 2».

La sua vita riparte da qui, da Codogno e dal suo lavoro nell’ospedale dov’è stato diagnosticato il primo paziente Covid in Occidente.

«Sì, la prima informazione che si può leggere su Codogno è che qui è stato ricoverato il primo malato di Covid europeo. Questo argomento per me è difficile, perché i miei genitori, entrambi medici, sono morti di Covid a 20 giorni di distanza. Per me erano un grande supporto. Io non ho lavorato durante la pandemia, poiché sono una madre single e ho il diabete, per cui mi era proibito. Durante l’epidemia ho completato una seconda specializzazione in riabilitazione e ho lavorato nella riabilitazione di bambini e adulti con problemi neurologici.

Ho frequentato corsi di lingua italiana a Somaglia, dove il mio insegnante è stato Piero e il direttore è Luigi, due volontari in pensione. Sono stati loro a presentarmi il dottor Andrea Filippin, direttore dell’ospedale di Codogno. Per poter lavorare come medico in Italia ho dovuto ottenere un passaporto europeo di qualificazione per rifugiati con cui potrò lavorare solo per la durata del permesso di soggiorno. È stato come riabilitatore che ho trovato lavoro nel reparto di riabilitazione cardiorespiratoria dell’ospedale di Codogno. È davvero difficile per me lavorare: c’è una barriera linguistica, anche se ho preso il livello B2, ho difficoltà nella comprensione del sistema di registrazione del computer e la riabilitazione cardiopolmonare è una nuova direzione. Anche se ho completato i corsi sulla riabilitazione dei pazienti con Covid il giorno prima della guerra. Mi piace lavorare e ho un ottimo team guidato dal dottor Francesco Tursi».

Quali sono le difficoltà che deve ancora affrontare?

«Mi piacerebbe tanto viaggiare in questo bellissimo paese con il suo fantastico mare, ma a mia figlia non piace uscire di casa e si comporta molto male nei luoghi affollati. Una volta hanno anche chiamato la polizia perché lei urlava e pensavano che la picchiassi, ma stavo solo cercando di calmarla e di tenerla lontana dalla strada. Ho anche dovuto affrontare un grosso problema di nazionalizzazione dell’auto e da sei mesi ormai non posso usarla, per cui sono chiusa da sola in casa con mia figlia. Prima, con la macchina, qualche volta potevamo almeno uscire fuori città e fare una passeggiata in un luogo deserto».

Cosa le manca di più del suo Paese?

«In Ucraina ho ancora un fidanzato che è in guerra, un fratello, zii e cugini, amici. Con mio rammarico, conosco famiglie in cui sono morte persone. Fortunatamente non i miei parenti. Quanto alla mia vita non è quasi cambiata rispetto a quando vivevo in Ucraina, perché tutto il tempo è solo per mia figlia. Mi mancano i suoi allenamenti in piscina o sui pattini a rotelle. Ho paura di uscire con lei in posti sconosciuti».

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