Philomena e il perdono di una madre

Philomena va in cerca di suo figlio. Non ha fatto altro, per tutta la sua vita. In silenzio, vergognandosene anche. Ragazza madre finita in un convento in Irlanda quando era ancora minorenne, è stata sempre convinta di aver abbandonato quel bambino, toltole dalle suore e dato in adozione a una ricca famiglia americana. Ma cinquant’anni dopo Philomena è sempre e soltanto una madre, che finalmente decide di andare a cercare quel figlio. Non per riaverlo, non per riportarlo in una casa che non potrebbe riconoscere, ma semplicemente «per sapere come sta», per vederlo anche solo una volta ancora. Martin invece è un giornalista politico, «abituato a rovistare nel fango», che da quello stesso fango è stato travolto. Caduto in disgrazia anche lui è in cerca di qualcosa, anche se controvoglia: di una storia di vita vissuta, che un settimanale scandalistico è pronto a dare in pasto ai suoi lettori.

I testi sacri della sceneggiatura dicono che quando hai fra le mani un buon personaggio hai già la metà del film: il personaggio è il cuore e l’anima di un progetto, attraverso di lui gli spettatori vivono le emozioni raccontate. Philomena di Steven Frears ha innanzitutto questo, un bellissimo personaggio (interpretato da una straordinaria Judi Dench) che porta con se una storia complessa e stratificata. È un film di sentimenti importanti Philomena, che parla di perdono e di guarigione delle ferite, un’opera sulla riconciliazione e su affetti che travalicano il tempo per diventare universali. E che esalta il valore della vita come bene supremo.

Dunque Philomena e Martin, opposti che si attraggono, uniti in un viaggio che ha in serbo molte sorprese per entrambi. Partono per trovare tracce del bambino di lei, sottrattole quando era stata chiusa in un convento (nel 1952, il film è tratto da una storia vera) ma in realtà iniziano un cammino che porterà molto più lontano loro e il pubblico davanti allo schermo.

La grandezza di un film come Philomena sta nelle poche inquadrature che servono a raccontare una storia complessa senza mai semplificarla, attraverso i gesti, i dialoghi, una scrittura inappuntabile. Qui tutto funziona come in un’orchestra, nelle mani di un grande direttore. Gli attori, le immagini, la musica: non una nota fuori posto. Mai una stonatura o una banalità: basterebbe il continuo ribaltamento dei ruoli tra i due protagonisti a dimostrarlo. Il giornalista che in tutti i modi cerca di sollevare la rabbia di Philomena, o un qualche sentimento di vendetta nei confronti di chi le ha sottratto il figlio. E di risposta l’incrollabile sentimento di Philomena che non cerca rivalsa, non vuole regolare i conti con il passato. Ha già perdonato e ha persino pensato che lontano da lei quel bambino ha forse avuto la possibilità di essere felice.

È un film che lavora in sottrazione Philomena e per questo è in grado di arrivare direttamente al cuore e alla testa dello spettatore. Non ha bisogno di gridare allo scandalo, anzi sceglie lo stesso tono della sua protagonista, lo stesso linguaggio semplice che è tutt’altro che ingenuo. Merito doppio in questo caso di Steve Coogan che, oltre che protagonista, è anche lo sceneggiatore in coppia con Stephen Frears. La loro è una lezione di cinema, un piccolo trattatello su come dosare e centellinare emozione e commozione, commedia e riflessione. Frettoloso e miope è invece accusare il film d’essere “commerciale”, troppo lineare e semplice, così com’è sbagliato scambiarlo per un atto d’accusa verso la Chiesa, per il comportamento delle suore di quel convento. Viceversa è straordinariamente attuale il messaggio contenuto tra le pieghe della storia, in linea con le parole pronunciate dallo stesso Papa Francesco: «Chi sono io per giudicare…».

PRIMA VISIONE Philomena va in cerca di suo figlio. Non ha fatto altro, per tutta la sua vita...

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