“Mia madre”, il Moretti più intimo

na vita intera che scorre davanti agli occhi, che prende la forma di una lunga coda davanti all’ingresso di una sala cinematografica dove si proiettano film di qualità. C’è Ada, sua madre, anziana e prima ancora ragazza. E c’è lei, Margherita, che guarda senza poter intervenire, mentre si chiede se mai riuscirà «a rompere uno dei duecento schemi» che condizionano la sua vita.

È solo una delle tante scene di Mia madre in cui realtà, finzione, cinema e vita si incrociano. Mentre un nuovo alter ego di Nanni Moretti fa ad alta voce domande che il regista farebbe a se stesso. Forse c’è anche Michele Apicella in quella coda davanti al cinema, di sicuro c’è Ada (una straordinaria Giulia Lazzarini) il cui personaggio è cucito su quello di Agata Apicella, la madre del regista scomparsa mentre lui girava Habemus Papam. Anche Margherita (che ha il volto di Margherita Buy) nella “finzione” sta girando un film mentre la madre è in ospedale, una storia di lotta operaia, che dovrebbe essere vicina alla realtà e invece sembra finta, fintissima, con un attore protagonista straniero (John Turtutto) che dimentica le battute rendendo paradossali gli avvenimenti tutto intorno, mentre i dubbi della regista Margherita crescono: «Tutti pensano che io sappia capire, parlare della realtà»… in verità «il regista è uno stronzo, e non gli si dovrebbe dare sempre ragione».

Realtà e finzione, e poi domande, il dubbio che le cose ritenute importanti possano risultare alla fine inutili: «A cosa serve il latino?», fa fatica a spiegarlo alla figlia adolescente Margherita, dopo averci creduto per una vita. Dopo aver creduto come Moretti che “le parole sono importanti”, che le regole avessero un senso. Ora però è aumentata la distanza tra vita e finzione e forse ha ragione l’attore americano quando urla «Voglio tornare alla realtà» (la battuta, ha raccontato Moretti, è “rubata” a Michel Piccoli protagonista del suo film precedente…).

È forse il suo film più personale (e può sembrare ardito dirlo del regista di Caro Diario e Aprile) e quindi il più sofferto, certo uno di quelli in cui Moretti mette più allo scoperto se stesso, mentre racconta di figli che si preparano alla perdita della propria madre (e in realtà descrive ed elabora il suo di lutto). Il film volutamente ed eccessivamente finto di Margherita, con l’attore costretto in auto a guidare senza poter guardare davanti, coperto com’è dalla macchina da presa, lei che da sempre chiede agli interpreti di «mettersi di fianco al personaggio», e che in fondo non ha mai capito bene cosa significhi… Moretti in questo modo racconta le sue paure, le incertezze, mentre mette in primo piano la libreria di casa, con i volumi di sua madre, con le versioni di latino ripetute alla nipote, l’analisi logica di un’esistenza intera alla ricerca del complemento oggetto per arrivare a una possibile traduzione della realtà. Mentre ricava per se stesso un ruolo “secondario”, un po’ defilato, il fratello di Margherita, più solido e consapevole davanti al dramma, capace di superare le inadeguatezze confessate.

È dolente ma mai ricattatorio Mia madre, autentico e scarno, secco (una dote rara), persino molto divertente, è l’esatto opposto del set di Margherita. Un cammino intimo in territori profondi, in cui si ritrova intatto il cinema del regista, con le sue storie, i personaggi che stanno come quelle persone in coda davanti all’ingresso del cinema. Un film così personale che contemporaneamente sa raccontare come pochi altri lo spaesamento davanti al presente, alla realtà che fa irruzione. E che conserva una grande speranza, nel suo bellissimo finale.

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