Lo Hobbit chiude il cerchio: un “prequel” per la saga dell’Anello

«Canzoni saranno cantate. Racconti saranno raccontati. E Thorin Scudodiquercia sarà leggenda». Così, cento anni prima della Compagnia dell’anello, si svolsero i fatti che portarono nani, elfi, uomini, orchi e mannari a fronteggiarsi, sotto lo sguardo di Bilbo Baggins che allora aveva conosciuto l’amicizia del mago Gandalf.

Un cammino circolare ha portato lo spettatore fin qui, fino all’ultimo episodio de Lo Hobbit, il libro di J.R.R. Tolkien che Peter Jackson ha tradotto in una trilogia per avvicinarlo ancora di più alla (diversissima) saga del Signore degli anelli, trasformandolo di fatto in “prequel”. Questo film conclusivo parte dove aveva lasciato il precedente, con l’oscuro Smaug, il drago che fa abbattere la sua furia su Pontelagolungo e Jackson non si cura di dover riassumere le “puntate” precedenti. Piuttosto il film intero sembra voler preparare il terreno per un seguito che, per una volta, già è stato, già è noto al pubblico.

La furia distruttrice di Smaug è quindi uno dei tre grandi scontri attorno a cui ruota la pellicola, che condensa tutti i temi dell’altra trilogia e si distacca anche da quelli del libro, aggiungendo e inventando situazioni e sviluppi che nel libro non c’erano o che Tolkien aveva messo solo nella saga dell’Anello.

Lealtà, onore, coraggio, tradimento prendono il sopravvento sulle atmosfere che avevano aperto Lo Hobbit, e La battaglia delle cinque armate sembra trasformarsi via via in un’appendice dell’altro racconto, che prende però senso proprio nel movimento circolare dell’universo creato da Jackson sulle orme di J.R.R. Tolkien.

L’altra grande componente, quella tecnica, non può infatti aggiungere molto di più rispetto alle meraviglie già viste, dopo che il digitale ha trasformato gli scontri e le battaglie e ha reso possibile replicarli con una qualità straordinaria anche su altri supporti: da questo punto di vista l’occhio si è quasi “abituato” e lo stupore è difficile da suscitare.

Jackson certo ci mette del suo, anche supportato dalla sceneggiatura che tra le firme porta quella di Guillermo Del Toro: le citazioni pittoriche, i riferimenti letterari sono espliciti, così come le architetture omaggio alle ardite “illusioni” di Escher. Il regista neozelandese non dimentica quale deve essere la natura del suo racconto e mantiene sempre alto il livello di emozione da regalare allo spettatore. Ma esagera anche, appiattendo il suo film con svolte troppo convenzionali e con concessioni da puro “blockbuster” (le storie d’amore, innanzitutto…). Cose che ai puristi di J.R.R. Tolkien non potranno sfuggire. I personaggi hanno meno sfumature rispetto ai protagonisti della saga, allora diventa importante la “parte oscura” che si impossessa anche di Thorin, tentato da quel tesoro che corrompe la mente e devia lo spirito. Ma è quasi una parentesi perché non è questo il cuore de Lo Hobbit che deve avviarsi verso la conclusione. Verso lo scontro finale, verso una nuova leggenda. Che resterà nel ricordo di chi cento anni dopo inizierà un nuovo (vecchio) cammino avventuroso.

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