È morto in una clinica romana il presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Avrebbe compiuto 96 anni il prossimo 9 dicembre.
Governatore della Banca d’Italia; Presidente del Consiglio; ministro del Tesoro; infine Presidente della Repubblica: se Carlo Azeglio Ciampi era, come amava definirsi, un «italiano normale», uno schivo proiettato sul privato, bisogna ammettere che la sua vita sia stata segnata da una lunga serie di avversità. Una sorta di Cincinnato chiamato a più riprese ad occuparsi della cosa pubblica minacciata da qualche Spurio Melio, ma che in fondo sognava sempre di tornare al suo campo. O alla Caprera buon ritiro di ogni grande figura del suo amatissimo Risorgimento, che nel suo caso specifico si chiamava Livorno.
In effetti politica attiva Ciampi non l’aveva fatta mai, fatto salvo un magro biennio consumato nell’effimera esperienza del Partito d’Azione. Dopo il deludente risultato ottenuto dal partito di Ferruccio Parri alle elezioni per la Costituente nel 1946, gli Azionisti si dispersero tra Repubblicani, Socialisti e Socialdemocratici. Un quarto gruppo tornò a vita privata, e Ciampi fu tra questi. Si mise a fare il professore di lettere, in virtù di un’eccellente laurea in filologia classica alla Normale di Pisa. La sua tesi era incentrata su un autore minore del III Secolo che, esiliato, scrisse un trattato per dire che in fondo anche in esilio si poteva vivere benissimo. Gli sarebbe tornata alla mente più volte quando, ormai insediato al Quirinale, avrebbe accolto da ospiti (ospiti, sia chiaro, e nulla più) gli eredi maschi di Casa Savoia.
Alla Normale aveva stretto profonda amicizia con Guido Calogero, suo maestro, mentore e sodale. Quando il Tutti a casa dell’8 Settembre l’aveva sorpreso giovane ufficiale in Albania lui, pur di non essere arruolato a forza nelle milizie repubblichine, aveva scalato le montagne d’Abruzzo che attraversavano il fronte, lungo il il Sentiero della Libertà. Arrivato a Scanno ritrovò Calogero e il gusto del vivere civile.
Fu però un’intuizione della giovane moglie Franca, destinata ad essere per lui ben più dell’altra metà di se stesso, a cambiargli la vita. Fece, su gentile suggerimento della ragazza che aveva appena impalmato, il concorso alla Banca d’Italia, lui che economista non era. Ma era un giovane dotato di indubbio ingegno e venne preso. Fu l’inizio di una carriera con pochi eguali nella storia repubblicana, divisibile in quattro fasi. Prima fase: gli anni alla Banca d’Italia. Ciampi entra a 26 anni: da avventizio protocolla le lettere e copia quelle in partenza. «Anche se ti assegnano un compito modesto sta a te rendere un lavoro importante», ama dire. Alla fine diviene il numero uno, grazie a quella che lui stesso definisce la propria capacità di fare squadra e di rispettare «le alterità». Gli ultimi anni sono particolarmente difficili. E’ il 1992-1993: Giuliano Amato è presidente del Consiglio, Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale e la lira nelle peste. Nonostante gli sforzi, le manovre e le privatizzazioni, l’Italia è costretta a svalutare. Amato racconterà anni dopo: «Entrò nel mio studio Ciampi, era verde: ‘La Bundesbank ci informa che non sosterrà più la lirà». Si rimedia, machiavellicamente, un pò per virtus e un pò per fortuna. Italia e Gran Bretagna annunciano di uscire dagli Accordi europei di cambio, la Spagna svaluta la peseta del 5 per cento. Tra il novembre 1992 e il maggio 1993 svalutano due volte ciascuna la peseta spagnola e l’escudo portoghese e una volta - del 10 per cento - la sterlina irlandese. Si realizza così, in un’altalena di tensioni sui mercati, quel riallineamento ampio dello Sme che l’Italia aveva proposto senza successo fin dall’inizio. Intanto la nostra Banca centrale riporta gradualmente il tasso di sconto ai livelli pre-crisi e ricostituisce le riserve in valuta. Pericolo scampato.
Il 1992 è anche l’anno di Tangentopoli. Il governo Amato è decimato dagli avvisi di garanzia dei giudici di Milano. Ministri che arrivano per essere rimpiazzati al primo sospirare del Palazzo di Giustizia. Perfidamente, Francesco Cossiga sintetizza la situazione con un «Amato procede nella sua azione di risanamento andando per toppe forzate». La situazione non regge, Scalfaro deve accoglierne le dimissioni e chiama Ciampi. Estraneo ai partiti che stanno rendendo l’anima a Dio, conosciuto in Europa e soprattutto nell’Europa finanziaria. E’ chiara la fine di un’epoca, lui stesso si definisce un «traghettatore» verso quella che di fatto sarà una Repubblica molto diversa da prima. Dà una prima aggiustata ai conti con il suo governo tecnico, dopo un anno lascia convinto che la politica possa riprendere le redini del paese. Arriverà Silvio Berlusconi.
Passata quella parentesi che furono il primo governo Berlusconi ed il governo «del Presidente» (inteso come Scalfaro) di Lamberto Dini, Romano Prodi chiama Ciampi a gestire la nuova cura da cavallo dell’economia nazionale. Scopo: l’entrata nell’euro fin dal primo giorno in cui questo diverrà la moneta unica europea. Francesi e tedeschi non ci vogliono, gli spagnoli - con cui Prodi tenta di creare un asse mediterraneo immediatamente soprannominato il Club Med - fanno la parte del compagno di banco secchione che non ti passa il compito. Parte allora la maxi-finanziaria 1997, con l’Eurotassa incorporata. La pressione fiscale italiana sale di 2 punti rispetto al Pil. Due mesi dopo, in novembre, l’Italia chiede il rientro nello Sme (il sistema monetario europeo da cui era uscita anni prima) . A fine 1997 il deficit sotto il 3% del Pil era ormai a portata di mano. Si entra nell’euro, tra i primi (alla faccia degli spagnoli, dei tedeschi e anche dei francesi). La «tassa sull’Europa» verrà in parte restituita, ma nell’immaginario collettivo resterà sempre come l’epitome del tartassamento.
Con Ciampi riesce un miracolo che non si verificava dal lontano 1946: l’elezione alla prima botta del Capo dello Stato. Ad indicarlo, nel 1999, è il centrosinistra, ma Berlusconi e Fini non hanno alcuna voglia di litigare con il Colle per altri sette anni, dopo l’estenuante - per loro - mandato di Scalfaro. Dicono subito sì, anche perché sanno che Ciampi non è uomo di scontro come il suo predecessore.
In effetti, il Quirinale di Ciampi talvolta dà l’impressione di pensare ad altro. Il Presidente parte per un lungo «Viaggio in Italia» (in realtà la prassi delle visite in tutte le province italiane risale a Scalfaro), oppure si concentra sulle «zoppie» introdotte nell’ordinamento europeo dalla mancata creazione di un governo comune dell’economia, ora che l’euro è una realtà concreta e circolante. Firma deludendo molti supporter un provvedimento controverso come il Lodo Schifani, poi bloccato dalla Corte Costituzionale, che rischia di garantire a Silvio Berlusconi l’immunità. Va anche detto però che si fa sentire con un messaggio alle camere in cui chiede la garanzia del pluralismo dell’informazione (il centrodestra gli risponde con uno sbadiglio). Il tratto saliente del settennato comunque è la campagna per la riscoperta della parola Patria. Ciampi, in fondo, è un mazziniano, o almeno il più postrisorgimentale dei capi di stato italiani dai tempi di Umberto I. Ripristina le parate militari, parla commuovendosi del Tricolore. Così facendo dissoda il terreno e getta il seme per quelli che saranno i festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Come si sa, fu una festa riuscitissima, grazie alla quale il suo successore Giorgio Napolitano raggiungerà vette himalayane nei sondaggi d’opinione.
Anche lui, ad ogni modo, alla fine del settennato avrà indici di gradimento molto alti. Tanto che in molti gli chiedono, in tutto lo spettro politico, di accettare la riconferma. E’ la prima volta nella storia repubblicana che accade una cosa del genere. Lui declina, signorilmente, l’offerta. «Nessuno dei precedenti nove presidenti della Repubblica - spiega - è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. E’ bene non infrangerla. A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato». Argomentazioni che verranno lasciate cadere nel silenzio sette anni dopo.
Sempre da gran signore, per non dir da Cincinnato, si ritira a vita privata, dividendosi tra Franca e Livorno, i suoi grandi amori. E con loro conviene chiudere questo ricordo.
Franca è stata la First Lady più presente - se non entrante - nella storia secolare del Quirinale. Lui parlava, lei interrompeva, per suggerire cosa il marito dovesse dire. Lui si spazientiva, lei sorrideva tutta compiaciuta. Ma soprattutto lo proteggeva, il suo Ciampi (sì, lo chiamava così, per cognome. Almeno in pubblico). Proteggeva del resto tutti coloro per cui provava simpatia. Andando in visita di stato in Vaticano, trovò un Giovanni Paolo II ormai invecchiato e molto acciaccato. Prese commiato ufficiale, dopo l’udienza. Poi all’improvviso si voltò e con fare materno fece al Pontefice che aveva abbattuto il comunismo: «Mi raccomando, Santità, non si strapazzi». Era fatta così. Ma bisogna anche ammettere che la coppia era riuscitissima. Una sera, rientrando al Quirinale, Franca e Carlo si misero letteralmente a giocare rincorrendosi. Purtroppo si erano scordati che non erano più ragazzi. Lui si ruppe la clavicola e finì in clinica. Lei non mollò per un attimo il capezzale.
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