Cosa si prova ad esser vivi in quella stanza? Semplice e terribile: la domanda più facile con la risposta più difficile. Impossibile per Theodore spiegarlo a Samantha, nonostante tutto l’amore che li unisce. Impossibile spiegare cosa significhi essere vivi a una voce che esce da un computer, anche se “lei” è tutte le voci del mondo, tutte le donne della terra.
“Le lettere d’amore fanno ridere”, fanno ridere le persone innamorate, e Theodore di mestiere scrive lettere per altri: lettere bellissime, piene di sentimento e di ricordi non suoi. Si è separato da quasi un anno dalla sua bellissima moglie e in quelle lettere mette tutto quello che non ha più e che ricorda. Fin quando trova Samantha che non è reale ma è l’ultima generazione di un sistema operativo che è stato studiato per evolversi e per assumere caratteristiche “umane”. Una “macchina” che è destinata a farlo innamorare e soprattutto a dare la risposta a quella domanda tanto semplice.
È un film sulla solitudine e sulla distanza Lei, scritto e diretto da Spike Jonze (il regista di Essere John Malkovich): racconta della lontananza e dell’impossibilità di essere davvero vicini in una società liquida in cui è difficile comunicare veramente, andare al di là delle parole, provare emozioni reali e saperle raccontare. Ambientato in un futuro prossimo, ricostruito da Jonze con una grande capacità espressiva, quasi pittorica, con luci che entrano nell’obiettivo a sfumare i contorni, e una regia che avvolge lo spettatore, descrive in realtà un universo più vicino a noi di quanto possa apparire. Un mondo di sentimenti interrotti e di singole umanità che faticano ad entrare in contatto, fatto di conversazioni virtuali che il regista simboleggia e riassume nel dialogo continuo tra Theodore e Samantha attraverso un telefono e un auricolare.
Coraggioso per come parla d’amore e di sentimenti senza cadere in nessuno dei tanti tranelli che stanno, naturalmente, sul cammino, scritto in maniera magistrale (la sceneggiatura ha vinto il premio Oscar) Lei è un bellissimo film e una sfida vinta sotto molti punti di vista: andatelo a vedere se vi chiedete come possa un film “di fantascienza“ raccontare una storia d’amore nascondendo dall’inizio alla fine la protagonista femminile, che si sente solo con la sua voce (nella versione originale quella di Scarlett Johansson e in quella doppiata di Micaela Ramazzotti, mentre il protagonista maschile è un sorprendente Joaquin Phoenix costretto dalla prima all’ultima scena a recitare “da solo“).
«C’è qualcosa che ti far star bene quando condividi la vita con qualcuno» prova a spiegare Theodore alla macchina che desidera imparare, scoprire come sono gli umani e i loro sentimenti. E il suo apprendimento sarà più rapido del previsto, una velocità uguale e contraria a quella impiegata dall’uomo per comprendere ciò che sta accadendo. Theodore che quando la incontra, quando acquista il software, è come il personaggio di un videogame che è finito in un tunnel e non trova la via d’uscita, e corre tra grattacieli e ascensori di vetro senza arrivare da nessuna parte.
Non è “solo” un film sullo strapotere e sull’invadenza della tecnologia nelle nostre vite, Jonze non parla di questo quando muove i fili della sua storia, che conserva molti dei tratti stilistici dei film precedenti (anche se attenua la vena surreale di John Malkovich). La sua è una riflessione che va in profondità, scava nei sentimenti e nell’animo umano, e ha grande potenza. Sembra paradossale da dire ma in un’opera così parlata sono un pugno di inquadrature a togliere il fiato: accade quando il rumore del mondo copre per un istante la voce di “lei”, mandando in frantumi l’illusione di Theodore di poter fare a meno di quel contatto umano. Quando la realtà torna a manifestarsi, semplice e terribile.
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