
Piero Gobetti ed Eugenio Montale, due anniversari da non dimenticare
EL PAGINON Non possiamo disperdere «un patrimonio etico e poetico che così prezioso sarebbe a questi tempi infelici»
Lodi
Quando Piero Gobetti partì da Torino il 3 febbraio del 1926, è verità, non oleografia, sulla città scendeva una nevicata fitta e improvvisa. La sua ultima visione si forma sulla carrozza traballante che avanza nella danza dei fiocchi; davanti a lui, l’enorme mantello scuro del vetturino; intorno, i palazzi sabaudi, la loro teoria cara e severa.
Lasciava, lui giovane, venticinquenne, una moglie ancora più giovane e un figlio di poco più di un mese: avrebbero dovuto raggiungerlo presto. Non fuggiva per le percosse e i pestaggi subiti, fin dal giugno del 1924; il primo, quando Mussolini aveva telegrafato al prefetto di Torino Enrico Palmieri con toni perentorî (“Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo”) e il prefetto era passato all’azione: il nove, Gobetti era stato aggredito, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate.
La replica s’ebbe il 5 settembre del 1925. Ma neppure questa volta Gobetti cedette.
Il problema che lo risolse a partire fu l’impossibilità a continuare l’opera di editore. Questa la diffida della Regia Questura di Torino, datata 18 novembre 1925: “In considerazione della azione nettamente antinazionale esplicata dal dott. Piero Gobetti, pregasi diffidarlo a verbale a cessare da qualsiasi attività editoriale”.
Moriva così la sua seconda rivista, “La rivoluzione liberale”. Del resto, in settembre, all’amico Luigi Emery, che nella capitale francese era corrispondente per alcune testate italiane, Piero aveva scritto che stava mettendo le basi per fondare una sua casa editrice lassù, e, nell’imminenza dell’espatrio, allo storico Giustino Fortunato aveva fornito i seguenti ragguagli: “Parto per Parigi, dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo e della politica spicciola, come i granduchi spodestati in Russia. Vorrei fare un’opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della rivoluzione moderna”.
Questo aveva in mente, Gobetti, mentre il suo treno varcava le Alpi ingoiato dal traforo del Frejus, a Bardonecchia. Ma a Parigi visse pochi giorni, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Prima in un alberghetto al Quartiere Latino, in Rue des Écoles, e poi in un hotel di Rue Vaugirard, dove lo fecero trasferire gli amici italiani che si erano resi conto del suo precario stato di salute. Gli ultimi giorni li trascorse alla Clinique de Paris, in Rue Piccini. Stava male di bronchi, sempre più debole il cuore. Vincenzo Nitti raccontò che la mattina del 15 febbraio un lieve miglioramento aveva illuso Piero, che due volte si era alzato dal letto e si era vestito, ostinato a guarire e a voler vivere. La sera, invece, venne la morte. Il cuore gli mancò, inutili le iniezioni di caffeina e poi l’ossigeno. Poco dopo la mezzanotte, senza soffrire, spirò. Privo dei suoi occhiali da filosofo, nel sonno definitivo, annota Nitti, Piero pareva “un fanciullo scontento”. Prezzolini, il giorno seguente, avrebbe rivisto in lui la maschera di Leopardi defunto.
Dettaglio meraviglioso e abbastanza noto: fra il primo e il secondo pestaggio, Gobetti aveva trovato il modo di essere lo stampatore della prima edizione di Ossi di seppia, il libro d’esordio di un giovane e umbratile poeta genovese: Eugenio Montale. Il carteggio fra i due, nei mesi della preparazione del volume, è la meravigliosa danza di affondi e difese, ironie e proteste che sempre si accende, e tanto più fra due personalità d’eccezione, nel rapporto autore-editore. Il primo ha in mente solo la sua opera, l’altro ha in mente cento cose (Gobetti, mille...). Inevitabili le frizioni, gli allontanamenti, i riavvicinamenti... Il libro uscì a metà giugno, e nessuno sapeva che sarebbe stato forse il più importante della poesia di quel secolo in Italia, né che il suo autore avrebbe vinto il Premio Nobel per la letteratura.
Due storie italiane avvenute fra la metà del 1925 e l’inizio del 1926, quelle dell’uscita di Ossi di seppia e della morte di Piero Gobetti, suo angelico e febbrile editore. Nel giugno scorso e nel prossimo febbraio, compiranno un secolo entrambe. Ma l’Italia, come diceva Ugo Ojetti, “è un paese di contemporanei”, sicché quasi nessuno le ricorderà. Disperdendo un patrimonio etico e poetico che così prezioso sarebbe a questi tempi infelici.
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