Generali / Centro Lodigiano
Venerdì 31 Ottobre 2025
Lasagne e merluzzo all’ombra dei tram VIDEO
LA CUCINA DELL’ANIMA Tappa a Casaletto Lodigiano, ospiti della “Stasiuneta” di Massimo Gardesani
Sempre detto, perché imparato dai grandi maestri: nei luoghi più remoti trovi bellissime scoperte. È un sabato mattina di luci scintillanti e vado, con un preannunciato senso di curiosità, alla trattoria la Stasiuneta di Casaletto Lodigiano, di cui mi ha parlato Robertino Smacchia: quest’ultimo è mio amico da molti anni, e va preso, come tutti del resto, per il suo verso; ma ha indubbiamente il merito di avere valorizzato la sua realtà territoriale in audaci libri di storia: ad ogni zolla di terra ha saputo attribuire la sua precisa epoca, a qualunque pietra ha saputo dare una data, a chiunque sia transitato da qui ha saputo riconoscere il suo merito. Adesso sta per pubblicare un libro sul sergente maggiore Desideo Meazza, nato il 7 ottobre 1896, storico aviatore di Casaletto Lodigiano; un testo corredato, oltre che da notizie biografiche, da schede caratteristiche compilate nei distretti di aviazione, foto e disegni di modelli di velivoli e motori.
Anche sul locale in cui si trova la trattoria è prodigo di notizie: qui il primo luglio 1881 venne istituita la prima stazione tramviaria Melegnano – Sant’Angelo; poco dopo, e se ne coglie ancora l’origine su una parete della trattoria, fu pure realizzata una stazione di posta, evitando così per gli abitanti del circondario di raggiungere quella che sino ad allora era stata la più vicina, sita a Lodi Vecchio.
Il locale richiama le origini di quel luogo, con un’esposizione di modelli tramviari, e con una serie di oggetti che valorizzano le atmosfere del passato.
Lo chef della Stasiuneta è Massimo Gardesani: la sua esistenza è una vera e propria antologia di racconti, che lui tuttavia sintetizza in gesti concreti, mostrando di sentirsi veramente a suoi agio solo tra i fornelli; anzi, nei giorni scorsi aveva persino tentato di delegare Robertino Smacchia a raccontarmi pure la cucina del locale, ma davanti al mio stupore, un appassionato di storia non è autorizzato giocoforza a illustrare pietanze e tegami, si è ritagliato del tempo per incontrarmi, offrendomi immediatamente uno dei più buoni caffè che abbia mai bevuto: «La fortuna di questo locale - si schermisce Massimo - è il bar: perché è il nostro primo biglietto da visita, l’originario momento di socializzazione con il cliente, una tappa di ristoro lungo la strada, dopo se vuoi è possibile scoprire le altre cose, cucina compresa ovviamente».
Lei di dov’è originario?
«Sono nato ad Ostiglia, in provincia di Mantova. Ma la mia famiglia si è poi spostata a Mairago, quando avevo soltanto 4 anni».
Ha perso i legami con le radici?
«Vado lì solo per prendere le salamelle, perché quelle mantovane secondo me sono le migliori, soprattutto insuperabili per realizzare il ragù».
Cosa hanno di così magico?
«Sono realizzate solo con maiale e agliate. Deve assaggiarle per capirne l’autenticità».
La cucina era nel suo destino?
«Le cose della vita vanno lette con il senso della retrospettiva. Ho frequentato la scuola alberghiera Vespucci di Milano, scegliendo l’indirizzo per fare il barista ed il cameriere: e infatti è da lì che ho cominciato. Mi piaceva moltissimo il rapporto con la gente. Ma poi ho aperto il primo ristorante, a Mairano».
Continui prego.
«Si chiamava la Trattoria Emiliana. La gestivo con mia mamma Silvana: lei aveva avuto sette figli, ma soprattutto era una cuoca eccezionale, bravissima nelle paste fresche, imbattibile sui tortellini. Avevamo posti per 300 coperti e ottenuto un discreto successo. Poi mi madre si ammalò e per un periodo subentrò mio fratello Giorgio: però l’assenza della mamma la sentivamo, e cambiammo rotta, ritornando alle origini: rilevai un bar, con un altro mio fratello, Stefano».
Dove?
«A Milano, in Corso di Porta Vittoria. Era il 1985. E sa un paradosso? In 100 metri c’erano 8 bar. Eppure, si lavorava tutti. C’era un flusso incredibile di gente. Ma i ritmi erano vorticosi. Dopo 14 anni ho detto basta e ho voluto ricominciare tutto daccapo. Quando la stanchezza ti assale, lo fa di botto».
Così, d’improvviso?
«Sottolineerei la mia resilienza. Sono sempre ripartito da zero, rischiando, facendo debiti, onorandoli, davanti alle difficoltà non mi sono mai arenato: sì, la mia è una storia di resilenza. Può scriverlo».
Visto che ne ha fatto cenno, quanto contano per lei i soldi?
«Per me non hanno alcun valore rispetto alla soddisfazione che si prova nel sapere di avere realizzato qualcosa di buono. Tra un locale ed un altro per me sono 50 anni di pedana ininterrotti: se non avessi sentito qualcosa dentro, nell’animo, sarei già sceso, e da tempo».
E ha ricominciato qui, ripartendo dalla Stasiuneta?
«Esattamente. D’altra parte, ero affezionato a questo ambiente perché noi abitavamo qui nel cortile interno: chi c’era prima aveva mollato, e in questi casi, in un posto marginale, un’attività rischia di scomparire. Ed io non volevo che ciò accadesse».
È anche romantico, allora.
«Rientrare in cucina dopo tanti anni è stata un’impresa. Ero affiancato inizialmente da mia cognata Angela, moglie di mio fratello Maurizio. Avevamo anche 4 dipendenti. Era l’anno 2000. Ricordo ancora il primo pranzo: 15 avventori. Mi chiesi se la media delle presenze fosse rimasta quella».
E come andò?
«Nel giro di un paio di mesi i coperti stabili erano 100 al giorno. Abbiamo fatto sempre e soltanto i pranzi da lavoro: un menù a costi contenuti, ed è un’impresa riuscirci a starci dentro, garantendo sempre la qualità. Ma lo sa che qui aumenta tutto? I sacrifici sono enormi, anche quelli fisici: alle sei del mattino sono già innanzi ai fornelli. Non è una vita facile, però mi piace».
Cosa offre la cucina, Massimo?
«È assolutamente casalinga: lasagne di carne, risotto alla mantovana, vari tipi di pasta fresca. Se si ferma a pranzo oggi c’è la carbonara. Poi ci sono altre proposte, ovviamente: i tortelli al martedì, gli spaghetti allo scoglio spesso al venerdì, la pasta all’arrabbiata con i miei peperoncini, e quella semplice al pomodoro, ma deve sentire il gusto della salsa».
Per secondo?
«Gli stufati, lo stracotto d’asino, il cinghiale, il cervo; e poi il merluzzo in umido, al venerdì, che i clienti apprezzano moltissimo».
Ha una ricetta speciale?
«Prima lo friggo, e nel frattempo preparo il sugo con le cipolle, un pochino di pomodoro e polenta, e quando è caldo vi immergo il merluzzo, uso solo quello d’Islanda, per me il migliore».
Come vini, cosa abbiamo?
«Qui i clienti chiedono il vino alla spina. Ma ovviamente ho bottiglie di Gutturnio, Bonarda e Chianti e anche di altri tipi. Prediligo comunque i vini rossi».
Un dolcetto c’è?
«Non amo fare i dolci, non ne avrei neppure il tempo. Quando apriamo il venerdì sera – solo su prenotazione, e con un numero garantito di presenze – la gente è solita portare magari una torta del proprio pasticcere di fiducia. Una volta si usava così».
Comunque adesso si è stabilizzato qui, o c’è il rischio di immaginarla ancora da qualche altra parte?
«Credo che non mi sposterò più, anche perché il mio bisogno di movimento lo soddisfo in altri modi: se non ho nulla da fare, vado a spaccare la legna. E poi tempo fa ho realizzato un mio sogno: ho comperato un camper e con mia moglie Gisella abbiamo visitato tantissimi paesi».
Il posto che le è piaciuto maggiormente?
«Siamo stati in Turchia e non siamo andati in Cappadocia: ma si può secondo lei? Comunque mi ha affascinato tantissimo l’Olanda. Allora, si ferma per la carbonara?».
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