I “maestri” del vino da tre generazioni

A colloquio con Gianenrico Riccardi della Nettare dei Santi di San Colombano

È un pomeriggio di luci scintillanti, quando vado ad incontrare Gianenrico Riccardi dell’azienda vitivinicola Nettare dei Santi; dal poggio in cui ci troviamo si gode una vista bellissima, siamo a San Colombano al Lambro ma potremmo essere ovunque: dove non ci sono confini, ogni paese si rende universo.

Gianerico Riccardi è un imprenditore che ha imparato il mestiere, in fretta, ma conserva parti di sé che non si sono strutturate nel percorso degli affari, mantenendo intatte tutte le proprie esuberanze giovanili, soprattutto il desiderio di sognare, di avere visioni che prescindano dalle concretezze, e che sprigionino fantasie, progetti, cose che potranno forse realizzarsi un giorno, ma che, intanto, è già bello anche solo immaginarle.

Sei nato a Milano, nel 1981, ricordo bene?

«Passami la battuta: sono nato in realtà in cantina. Perché da subito ho cominciato a vivere la quotidianità dell’azienda vinicola; da piccolo giravo per i vigneti, ma il mio luogo ideale era, appunto, la cantina: finivo sempre qui, mi affascinavano i processi di imbottigliamento».

La tua infanzia non sarà stata solo tra queste mura, però.

«Sono stato un ragazzo normale, ci mancherebbe! Dopo avere finito le scuole d’obbligo, ho frequentato l’istituto Tosi di Codogno come perito agrario, e poi la facoltà di Enologia a Milano, ma dopo un anno mi sono dedicato completamente all’azienda. Questa scelta mi ha fatto crescere tanto, ho imparato molto, eppure col passare degli anni ho sempre avvertito il desiderio di tornare indietro».

In che senso?

«L’impressione di una vulnerabilità, magari qualche pecca, perché qualcosa che è rimasto irrimediabilmente perso, credo infatti che proseguire gli studi mi avrebbe dato una mano, anche nelle relazioni con la gente».

L’azienda è di famiglia, giusto?

«La fondò mio nonno Franco nel 1940; lui era stato vincitore di quattro ori olimpici, discipline spada e scherma, a Los Angeles, Amsterdam e Berlino, rispettivamente nelle edizioni del 1928, 1932 e 1936. Qui aveva la casa di campagna, e curava i primi vigneti, ma solo per una produzione ad uso famigliare. Poi una volta fece assaggiare il suo vino ad un amico, che aveva una cantina sull’Oltrepò pavese; questi gli scrisse una lettera piena di complimenti, da cui mio nonno trasse molta fiducia».

Trovò lo spunto per lanciarsi nell’impresa, questa volta non di tipo sportivo.

«Negli anni ’40 il nonno fu il primo, a San Colombano, a cominciare l’imbottigliamento. Sì, come dici tu, probabilmente aspettava solo che scoccasse la scintilla per mettersi negli affari: cominciò a vendere le sue bottiglie ai negozi di Milano. Poi creò il nome dell’azienda, Nettare dei Santi, e quindi le etichette, tipo quella del Roverone, una delle più conosciute della nostra azienda».

Poi cosa accadde?

«Il nonno morì d’improvviso con un infarto, e mio padre Enrico dovette in tutta fretta rientrare da Padova dove studiava Legge per affrontare la prima vendemmia. Si appassionò al lavoro, mollò gli studi e intraprese l’attività vitivinicola. Oggi ha 83 anni, ma finchè ha lavorato è stato sempre un vulcano di idee. L’azienda faceva 20mila bottiglie all’anno, lui trasferì la cantina in mezzo ai propri vigneti, e la produzione nel 1998 fu di un milione di bottiglie. A fianco ebbe sempre mia mamma, Giovanna Anselmi, originaria di San Colombano al Lambro: insieme sono stati capaci di fare crescere l’azienda, di farsi conoscere in tutta la Lombardia, e non solo a Milano, che rimane un fulcro delle nostre attività».

Papà lavora ancora?

«Si è distaccato da quando gli è subentrata una nuova passione: quella per le macchine d’epoca».

Com’è il mondo del vino visto da dentro?

«Affascinante, in un certo senso come lo vedi da fuori: la stessa uva prende sentori diversi a seconda di dove è coltivata. Non si riesce a scoprire sempre tutto, ogni annata riserva qualcosa di nuovo».

Sei un cantiniere o un vignaiolo?

“Credo l’uno e l’altro. Perché la qualità arriva dal lavoro che si fa in vigna. In realtà, inizialmente ero nella parte commerciale: ho cominciato nel 2002, papà disse di andarmi a procurare i clienti a Milano. Però seguivo anche i lavori in cantina, e quindi mi sono appassionato alla campagna. Perciò alla fine sì, mi definirei un vignaiolo».

Cosa rivelano le tue vigne, allora?

«La nostra è una zona con parecchia qualità di uva: personalmente sono appassionato al pinot nero, reso da un vitigno integrale. Quasi tutte le nostre uve hanno basi per lo spumante: uva chardonnay, e il pinot nero vinificato in bianco, cioè l’acino superato dalle sue bucce, che dà un prodotto bianco roseo utilizzato appunto per la spumantizzazione».

Di che quantità parliamo, può dirsi? E quando un’annata può definirsi eccezionale?

«Intorno ai cinquemila quintali annui di uva. Una buona annata si qualifica in base alla qualità dell’uva: dal 2008 in poi quasi tutte le annate sono state eccezionali, tranne quella del 2014 perché vi fu una stagione di pioggia eccessiva che condizionò il raccolto».

Punto d’eccellenza è la vostra cantina.

“Vi abbiamo fatto investimenti importanti, fu trasferita dal paese soltanto negli anni Ottanta: diciamo che la storia è nella vecchia casa, mentre l’azienda attuale è stata creata praticamente nuova, qualcosa di antico si conserva nelle vasche in cemento, ma poi furono realizzate nuove strutture con l’introduzione dell’acciaio. Negli anni abbiamo realizzato la barricaia, per il mantenimento delle nostre riserve più importanti, più una zona per l’affinamento degli spumanti».

Sei di quelli che amano suggerire l’abbinamento tra vino e cibo?

«Avendo qualche competenza, perché non dovrei? Quando vado ancora a proporre le nostre produzioni mi piace suggerire quale vino utilizzare. Ma le riserve non le utilizzerei mai in un ristorante che fa cibi veloci, perché questi vini hanno bisogno di un’apertura anticipata, un ambiente caldo, gli abbinamenti non sono mai frutto di improvvisazione».

Da chi hai imparato?

«Penso che i primi valori me li abbia trasmessi la mia famiglia: vedere come lavoravano i miei, l’accoglienza al cliente, la gestione dei rapporti, è stata una grande lezione, e poi ho appreso da tutte le persone con cui ho collaborato: ad esempio, Federico Carenzi, tecnico enologo, un riferimento per la nostra cantina. Invece, per la parte manageriale, ho fatto un corso con Antony Robins: un coach che mi aperto la mente e mi ha fatto cambiare visione sul modo di gestire le attività: mai porsi limiti, sempre creare cose nuove, non fossilizzarsi su quelle sicure».

Posso farti un complimento? Le etichette sulle vostre bottiglie sono bellissime!

«Le realizza un grafico, però, non per vantarmi, credo di essere parte integrante della creazione: in ogni caso, correggo molto».

Cos’è il bello del tuo lavoro?

«Ogni giorno è diverso dall’altro: c’è quando vai nella vigna, o quando resti in cantina, quando proponi il tuo vino ed incontri la gente».

Dimmi il vero valore aggiunto dell’azienda Nettare dei Santi.

«Qui tutto viene realizzato con il cuore, con amore e rispetto dell’ambiente in cui viviamo, un equilibrio che cerchiamo di mantenere: per le nostre selezioni migliori evitiamo assolutamente le raccolte meccaniche, ci affidiamo al contrario alla manualità: ci vogliono 20 persone nei periodi di vendemmia».

A quali novità stai pensando?

«A rafforzare le iniziative enoturistiche, che abbiamo avviato promuovendo le degustazioni. Ogni week end del mese abbiamo le visite in cantina, in particolare la domenica mattina. Mia moglie Valentina in questo progetto sta fornendo un importante impegno: una scelta di cui siamo convinti e che, appunto, cercheremo di valorizzare ulteriormente».

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