Una sanguinosa “guerra di trincea” per ridefinire gli equilibri globali

L’analisi del professor Ramaioli a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina

È passato un anno dall’inizio della guerra in Ucraina. Qual è il bilancio? Consideriamo tre aspetti: la vicenda militare; il campo europeo; e quello internazionale. In primo luogo, il fronte della guerra si è relativamente stabilizzato. Succede spesso. L’invasore vuole condurre una veloce guerra di movimento; l’invaso vuole respingerlo dopo aver subito l’urto. Il risultato è che, da Kherson a sud fino a Kharkiv a nord, russi e ucraini si stanno affrontando in una sanguinosa guerra di trincea, in uno stillicidio di uomini, mezzi, risorse.

La battaglia per Bakhmut, in particolare, infuria da sette mesi. Il piccolo centro non ha grande valore strategico: ma ne ha acquisito enorme a livello simbolico per entrambi. Per i russi, la sua presa significherebbe la capacità di acquisire di nuovo territorio, cosa che non accade dalla controffensiva ucraina del settembre scorso. Per gli ucraini, si tratterebbe della riprova che, con supporto occidentale, la loro resistenza è efficace e può continuare. Proprio in questo senso vi sono due osservazioni. La prima è che gli armamenti occidentali si sono dimostrati molto più avanzati di quelli russi, e hanno in effetti permesso a Kiev di fermare l’avanzata. Tuttavia, questa guerra consuma più mezzi e munizioni di quelle che le industrie belliche occidentali (statunitense inclusa) riescano a produrre. Senza formulare giudizi di merito, dal mero punto di vista accademico possiamo dire che la possibile conversione in produzione bellica delle capacità produttive occidentali è quindi necessaria e decisiva se si vuole continuare a fermare l’armata russa. La seconda è che, in una guerra di logoramento, il peso della Russia, specie dal punto di vista demografico, può rivelarsi decisivo. La Russia ha quattro volte gli abitanti dell’Ucraina. La mobilitazione annunciata da Putin risponde proprio a questa logica. È in linea pure con la storia militare russa, che ha sempre sfruttato il fattore numerico per compensare deficienze tecnologiche e logistiche.

Tutto questo, in secondo luogo, chiama in causa il campo europeo. Si è giustamente rilevato come l’Europa abbia, nel complesso, manifestato grande unità allo scoppio della crisi, cosa non scontata

Tutto questo, in secondo luogo, chiama in causa il campo europeo. Si è giustamente rilevato come l’Europa abbia, nel complesso, manifestato grande unità allo scoppio della crisi, cosa non scontata. Si sono mobilitate risorse - militari e di addestramento in primis - per l’Ucraina. Si sono comminate sanzioni pesantissime alle Russia. Eppure vi sono evidenti problemi. L’unità di intenti politica fin qui osservata non può durare indefinitamente quando l’Europa è composta da paesi con diverse prospettive geopolitiche. Stati come la Polonia inquadrano questa guerra in prospettiva storico-esistenziale (la possibilità di mettere fine una volta per tutte alla minaccia russa) e si comportano di conseguenza a livello politico e militare. Ma paesi come Portogallo e Spagna non vedono la Russia come una minaccia; per non parlare di regimi come quello ungherese o turco che hanno posizioni addirittura ambigue. Germania, Italia e Francia sono sì sostenitrici di Kiev, ma è innegabile come esitazioni e divisioni in politica estera si manifestino con costanza (a livello sia di opinione pubblica sia di leader politici, come sappiamo bene alle nostre latitudini). Tenere insieme questo eterogeneo fronte diventerà vieppiù complesso per gli Usa, ultimo vero collante della politica estera europea.

In ultimo luogo, la tenuta del fronte europeo è parte di un domino a livello globale. Non stiamo assistendo alla terza guerra mondiale; ma per la prima volta dal 1945 l’architettura sicuritaria internazionale vede coinvolte in prima linea le tre maggiori potenze

In ultimo luogo, la tenuta del fronte europeo è parte di un domino a livello globale. Non stiamo assistendo alla terza guerra mondiale; ma per la prima volta dal 1945 l’architettura sicuritaria internazionale vede coinvolte in prima linea le tre maggiori potenze: Russia, poi appunto gli Usa e infine la Cina. Lo scontro in Donbass, a Zaporizhzhya e a Kherson è una parte di un conflitto - per ora non ancora militare - per la ridefinizione degli equilibri di potenza globali. La Cina osserva con attenzione quanto avviene in Ucraina. Felice di vedere gli Usa distratti dal quadrante chiave dell’Indo-Pacifico e dalla questione-Taiwan. Felice di ricevere una Russia indebolita e isolata dalla guerra come inevitabile partner di minoranza (non chiamiamoli alleati: la Cina ha espresso vago supporto politico e offerto quasi nulla sul piano militare al Cremlino). Ma rimane incapace di trarre lezioni utili, per ora, da questa guerra. Il supporto occidentale per l’Ucraina, dovesse riproporsi per Taiwan, dove gli Usa hanno più volte espresso una chiara volontà di difendere l’indipendenza di fatto del paese, impedirebbe ai cinesi di riprendersi l’isola. Ma quale momento migliore per provarci, con Washington occupata altrove? Un generale americano ha recentemente indicato il 2025 come l’anno dell’invasione cinese oltre lo stretto. Non una predizione, ma invece una richiesta precisa di riarmo al sistema militare-industriale americano: è tempo di considerare l’egemonia unipolare americana come chiusa. Ad un anno dalla guerra, sappiamo ora mettere le date a tale era: 1989-2022.

Massimo Ramaioli si è laureato all’Università di Pavia in Scienze Politiche e ha poi proseguito gli studi con esperienze negli Stati Uniti, in Africa e in Medioriente. È Visiting Professor presso la Al-Akhawayn University di Ifrane, Marocco.

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