SAN BASSIANO - La fede che viene da lontano rafforza la nostra comunità

L’editoriale per la festa del patrono di Lodi firmato da Andrea Maietti

Ricordate la mezzanotte del Duemila? Covava la paura che una nuova alba non dovesse spuntare più. Il giorno dopo la lancetta lunga si è sovrapposta a quella corta sulla pendola di casa. Il sangue scorreva ancora nelle vene. Il vecchio mondo continuava il suo giro nella rassicurante fissità dei millenni. Quasi la stessa sensazione di questi tempi di virus e di guerre.

Che niente sia più come prima. Il timore che San Bassiano non debba tornare più. Torna una canzone di Guccini di quarant’anni fa: “Dio è morto”. Le chiese sempre più deserte, i giovani sempre più lontani. Se si dubita di Dio, come si potrà continuare a credere ai suoi santi?

Se si dubita di Dio, come si potrà continuare a credere ai suoi santi? Eppure qualcosa resiste. Viene da lontano. Il rosso del cotto dell’abbazia del Cerreto a Est, della basilica di San Bassiano a Ovest

Eppure qualcosa resiste. Viene da lontano. Il rosso del cotto dell’abbazia del Cerreto a Est, della basilica di San Bassiano a Ovest. Se unite con un righello l’abbazia e la basilica sopra una cartina geografica, scoprirete che Lodi sta esattamente nel mezzo. Come se l’imperatore Barbarossa, fondando la città il 3 Agosto 1158, fosse stato ispirato da San Bassiano a porre Lodi al riparo di due formidabili cittadelle dello spirito, proprio nei punti cardinali simbolo dell’alba e del tramonto, della nascita e della morte.

Le due cittadelle sono ancora lì, malgrado guerre e virus. Destano sempre qualche nostalgia, come quella di un giovane docente di Lettere dell’Università di Pavia, Mirko Volpi, che a Lodi ha passato l’adolescenza. Ha appena scritto sulla rivista mensile “Il Timone”: “Trippa e devozione. Il certo non incongruo (e certamente non irriguardoso) binomio si impone dolcemente nei miei pensieri ogni diciannove di gennaio, giorno di San Bassiano. Vorrei essere ancora a Lodi a far la fila per la trippa, scendere i gradini della cripta, sfiorare con un fazzoletto nuovo la teca del santo”. Parla come il mio amico ottuagenario Alberto. Fino a qualche anno fa arrivava in duomo alle otto di mattina, passava nella cripta per la teca, poi tornava su, sedeva nell’ultima fila della navata centrale, e aspettava il pontificale.

Parla come il mio amico ottuagenario Alberto. Fino a qualche anno fa arrivava in duomo alle otto di mattina, passava nella cripta per la teca, poi tornava su, sedeva nell’ultima fila della navata centrale, e aspettava il pontificale

Tornato a casa col filsòn santangiolino, riponeva il fazzoletto nel comodino di San Bassiano: ogni anno così, per sessant’anni. «Adesso sono male ingambato - mi dice - -: e il mio fazzoletto sarà un pensiero. Siamo in guerra, che non è confinata a quella tra Ucraina e Russia. Non pregherò per me, mi considero fortunato. C’è una rèla in giro che non ne ricordo una uguale».

«Resta il nostro patrono - dice Alberto -. Lui torna sempre, e sa il suo mestiere»

Rèla è, nel nostro dialetto, il bastoncino a due punte della lippa, sul quale si abbattono i colpi del bastone grosso, el bacarél. In senso figurato aria grama, come è del povero bastoncino preso a randellate dal parente maggiore. «Resta il nostro patrono - dice Alberto -. Lui torna sempre, e sa il suo mestiere. Gli ripeterò, con più forza di sempre: O San Bassan, dàghe una man!». E mì? Farò come l’amico Alberto.

Oggi in edicola con «il Cittadino» lo speciale dedicato alla festa di San Bassiano

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