Non alimentiamo il clima da stadio sulla Terrasanta

Il commento di Marco Zanoncelli

C’è un senso di impotenza di fronte a quello che sta accadendo in Israele: siamo tutti spettatori di una tragedia che colpisce ferocemente da una parte e dall’altra e che drammaticamente va ad infierire sui più deboli, i più esposti ed indifesi, in un dramma che inverte e sconquassa le priorità e smarrisce valori e beni.Siamo tutti spettatori di una tragedia che colpisce prima di tutto la popolazione inerme: donne, bambini, vecchi e malati, in un sciagura nella quale si mescolano vittime e carnefici, bene e male, giuste rivendicazioni e ingiuste sopraffazioni. Siamo davvero di fronte ad una situazione in cui si rischia di perdere il senso delle cose, di smarrire la bussola, di dimenticare l‘orizzonte delle certezze.

Assistiamo ad un racconto di dolore costante, tutti i giorni, in tutte le lingue, un dolore che non ha nazionalità o religione, che non possiede confini né lingue né culture. Di fronte ad un bimbo che viene ucciso o ad un bambino che urla per la morte della mamma, che senso hanno le nostre parole? Che peso possono avere le ragioni ed i torti? Come è possibile distinguere, discernere, valutare e discriminare?

Giunge dal Medioriente un urlo di dolore, di sofferenza che a nessuno è concesso di ignorare o soffocare.

Che cosa possiamo fare? Che modo abbiamo di intervenire, di influenzare o quanto meno di consigliare?

Credo che agli uomini di buona volontà resti una sola opzione: quella di invitare alla riflessione, al pensiero, alla considerazione razionale e ponderata. Agli uomini di buona volontà è chiesto di non alimentare questo clima da stadio che, anche in Italia, sta alimentando il dibattito pubblico, nel quale si sentono opposte tifoserie che inneggiano chi ad una parte e chi all’altra. Ci è chiesta una sana terzietà, che non è equidistanza tra i contendenti ma, come disse Francesco, si trasforma in equivicinanza, compassione e comprensione. È tempo di placare gli animi e di spingere perché ci si possa guardare negli occhi senza che un odio viscerale ci offuschi la mente. È necessario che si riconoscano le reciproche ragioni, senza sconti, senza giustificazioni di parte, ma ammettendo che dopo più di settant’anni di guerra le ragioni ed i torti si sono mescolati inesorabilmente. Occorre confessare le ragioni degli uni senza che questo significhi parteggiare per l’altra parte; occorre smascherare i torti degli altri senza che questo diventi un delitto di lesa maestà.

Forse è questo quello che la comunità internazionale, ma anche ciascuno di noi nel suo piccolo, può fare: uscire dalla logica della contrapposizione che nega non solo i bisogni dell’altro, ma la sua stessa esistenza ed i suoi intriseci diritti. Finché alimenteremo una lettura faziosa che, in nome di una verità di parte, nega la complessità delle cose, sarà difficile ricomporre le cose ed arrivare ad una pace giusta.

Sarò forse troppo idealista o ottimista ma i tempi difficili richiedono, anzi esigono, una classe dirigente capace di dire parole vere anche se difficili, oneste anche se fastidiose, sincere benché ostiche da digerire.

Ciò che possiamo fare di fronte a certe tragedie è avere il coraggio della verità, sapendo che essa non collide mai con il nostro punto di vista ma si alimenta con lo sguardo e la carne dell’altro, con la sua sofferenza, con i suoi diritti e con il senso complessivo che egli sa dare alle cose.

© RIPRODUZIONE RISERVATA