Nella società “aperta” c’è ancora posto per la festa del papà?

Il commento di Marco Zanoncelli

È rimbalzata su tutti i mezzi di informazione la notizia della decisione della direttrice didattica di una scuola dell’infanzia di Viareggio di annullare un laboratorio legato alla Festa del papà. Racconta la preside come «cinque o sei genitori siano venuti a lamentarsi da me perché non trovavano giusto che in quel giorno i loro figli, che non avevano il papà, venissero esclusi da quell’attività (…). Ho trovato le loro lamentele condivisibili, perché un laboratorio organizzato in questo modo è discriminatorio nei confronti di chi non ha un papà. (…) Dobbiamo renderci conto che viviamo in una società diversa da quella di 50 anni fa. Non esiste più una famiglia modello. Oggi ci sono situazioni aperte e particolari che devono essere rispettate e tutelate. Soprattutto da una scuola». La cosa, come è naturale attendersi, ha scatenato polemiche e proteste da più parti.

Ora che, a qualche giorno di distanza, il clamore si è un poco placato, forse vale la pena tentare di mettere in fila qualche idea in modo sereno e, se possibile, misurato.

Occorre riconoscere che questa decisione, benché unica nella situazione specifica, non è nuova nel nostro Paese, soprattutto nell’ambito scolastico: basti ricordare, a titolo di esempio, la cancellazione delle rappresentazioni natalizie, della preparazione del presepe, dei lavoretti e dei canti di Natale o di altre celebrazioni troppo marcatamente “di parte” o identitarie. Le ragioni addotte per giustificare tali scelte hanno un minimo comun denominatore: ossia il fatto che l’espressione dell’identità di qualcuno potrebbe essere percepita come discriminatoria o violenta verso chi possiede una identità differente. In altre parole, la festa del papà tende ad essere divisiva per chi non ha più un papà, quella della mamma per chi è rimasto, ad esempio, orfano di mamma; il Natale può risultare discriminante per chi non è cristiano e così via. Il tutto fatto in nome di una società aperta, che, in quanto tale, è chiamata ad essere “anonima” e neutrale.

Viene il dubbio, quanto meno a chi scrive, che la pulsione a togliere “pezzi” dalla nostra identità personale e comunitaria ci lasci alla fine dei conti più poveri, anonimi e scialbi e che questa “furia iconoclasta” rischi di cancellare, insieme ai tratti potenzialmente discriminatori, anche il senso di chi siamo, il valore della nostra storia e, a ben vedere, il peso della nostra identità. Non vorrei che una volta rimosso il Natale, il senso della gratitudine intergenerazionale, il valore delle feste e delle tradizioni, i tratti culturali che si incarnano in usanze, costumi e celebrazioni, ebbene alla fine di tutto questo ci guardassimo allo specchio e notassimo che il nostro volto ha assunto il tono di un grigio anonimo, insipido, mediocre e banale.

La questione in gioco qui, al di là del fatto specifico di cronaca, è assai decisiva, molto più di quello che si possa immaginare. È il tema della diversità e del valore che assegniamo ad essa; è il tema del confronto tra differenti in una società plurale e multiculturale; è il nodo legato al modo in cui pensiamo il valore dell’integrazione, della convivenza e della socialità. Il punto è chiedersi se vivere insieme implichi la rimozione di tutti quei tratti che esprimono un principio di differenza culturale, linguistica, storica ed etica; il punto è interrogarsi se per essere comunità occorra rimuovere ciò che è specifico, particolare, peculiare, affinché esso non sia “di disturbo” a chi non è come noi.

Tornando al caso in questione: ma è proprio vero che la festa del papà debba necessariamente essere percepita come discriminatoria da parte di chi, per diverse ragioni, non ha un padre vicino a sé? O, nell’ambito di un cammino educativo, quale quello scolastico, è possibile integrare questa – certamente dolorosa – assenza in un percorso che renda quel vuoto, per quanto possibile, accettabile e vivibile? Da dove nasce questa idea che le ferite della vita debbano necessariamente essere rimosse, cancellate, negate, come se fossero elementi non utili per la costruzione di una umanità sana ed equilibrata?

È faticoso in questa società accettare che quanto è difforme da una presunta normalità, quanto è diverso, discordante, dissimile e spesso contraddittorio, possa, nonostante tutto, essere un valore, una ricchezza, un bene da condividere e da celebrare. È difficile accettare che ciò che è imperfetto, incompleto, apparentemente sbagliato, possa interpellare la nostra presunta normalità, provocare le nostre verità, stimolare il nostro pensiero. In pochi decenni ci siamo trovati a vivere in un mondo di “diversi”, di gente irregolare, insolita e discorde. Pensare di trovare una soluzione a questa complessità imboccando la scorciatoia della negazione di ogni differenza non credo sia una soluzione a lungo andare proficua.

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