LODI Le parole di Michela Murgia sono un inno alla vita

«La sua testimonianza un invito ad uno sguardo meno superficiale sul vivere, ad andare più a fondo nei legami, nelle parole, nei sentimenti»

Ho letto con attenzione e commozione la straordinaria intervista di Aldo Cazzullo a Michela Murgia. La nota scrittrice ha raccontato della sua malattia oncologica che è giunta al quarto stadio e che non le lascia da vivere più di qualche mese. La Murgia ragiona, con la sua consueta franchezza, sulla sua esistenza, su quello che ha raggiunto in questi cinquant’anni di vita, sui suoi legami, sulla sua malattia, su come intende attraversarla e su come si sta preparando a salutare le persone a cui vuole bene.

Due cose non si possono fare di fronte a queste parole: la prima è la commiserazione, la seconda è il giudizio. Credo che sarebbe davvero troppo poco commentare le sue parole con una compassione superficiale per quello che le è accaduto; “poverina” è un appellativo che non si dimostra all’altezza dei suoi pensieri, che non corrisponde alla serietà e alla drammaticità della sua esperienza. Allo stesso modo a nessuno è consentito di giudicare le sue riflessioni, e questo non per un banale senso del rispetto o per una convenzionale accondiscendenza verso ogni opinione. Ciò di cui la Murgia parla afferisce ad un livello dell’esistenza in cui nessuno è maestro ma siamo tutti discepoli, goffi apprendisti, incapaci scolari; ciò che il suo discorrere indica porta al cuore delle cose, al mistero ineffabile del tempo, a quel nucleo sorgivo di ogni esistere che può solo essere accolto, compreso, onorato e contemplato.

Confesso che provo una immensa ammirazione per questa donna e non perché anzitutto ne condivida il pensiero, l’atteggiamento o le scelte. L’ammirazione nasce da quella sua capacità di fare i conti, a testa alta e con coraggio, con il senso della propria finitudine, con la dimensione drammatica del proprio limite, del proprio essere finiti, del proprio “essere per la morte” come direbbe Heidegger.

Più passa il tempo e più maturo la consapevolezza che in fondo diventare pienamente uomini significhi fare i conti con il nostro limite e con questo “ospite scomodo” della vita che è la propria fine. Si diventa uomini nella misura in cui ogni limite è integrato, in qualche modo, nella propria esistenza, non come un dato repellente, ma come un elemento intrinseco, nativo, implicito del vivere stesso. Ecco perché le parole della Murgia appaiono come testimonianza di una esistenza che tende alla pienezza, che non elude il lato oscuro di ogni vita, che tenta uno sguardo capace di tenere insieme tutto e tutti.

La testimonianza della Murgia la sento come un invito ad uno sguardo meno superficiale sul vivere, come l’appello ad andare più a fondo delle cose, dei legami, della parole, dei sentimenti.

Le sue docili parole sono un grido: un grido alla vita, alla resistenza, alla capacità di restare uomini, senza se e senza ma. Sono un canto alla nostra umanità, così ferita, così fragile, così meravigliosa.

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