Lo slogan “Italia cristiana” alimenta la cultura dei muri

di Elena Bulzi

Capita di sentire slogan che inneggiano a un’Italia cristiana e capita anche di vedere gli stessi slogan affissi furtivamente ai cancelli di istituti scolastici dove vivono e lavorano insieme nelle stesse aule bambini e bambine di provenienze geografiche e religiose diversissime, senza che questo sia motivo di discriminazione. Almeno da parte dei bambini. Di fronte a questa dicitura di “Italia cristiana” mi sorge spontanea la domanda: a quale cristianesimo si vuole fare riferimento con questa espressione? Il cristianesimo infatti è una grande famiglia con un unico cognome: “cristiano” appunto. I tanti fratelli e sorelle che vivono in questa famiglia hanno però nomi differenti: “cattolico/a”, “ortodosso/a”, “copto/a”, “evangelico/a” e molti altri ancora. Tutti presenti in questo nostro lembo di terra lodigiana.

Forse con lo slogan ci si vuole riferire ai cristiani cattolici, che portano però impresso fin nel nome la loro vocazione di apertura universale. Proprio questo infatti significa l’aggettivo “cattolico”.

Il senso proprio della cattolicità diventa allora particolarmente pregnante per noi, che viviamo oggi in contesti fluidi, dove gli scenari sono mutevoli, e dove sempre più spesso ci troviamo a dover gestire convivenze non scelte. Queste situazioni possono generare un disorientamento che facilmente scivola in una chiusura sempre più forte, fino al terribile cortocircuito della violenza. Accade quando si pensa di poter rispondere all’inedito solo con il patetico tentativo di riavvolgere il filo della storia e di innestare la retromarcia di un’improbabile macchina del tempo. Di fronte all’alterità che ci interpella, diventa forte “la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri, i muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. Ma chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro i muri che ha costruito, senza orizzonti”. Sono le parole di papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti.

E più si ispessiscono i muri, quelli nella terra e quelli nel cuore, meno si ha lo sguardo aperto e capace di intuire l’inedito e di accompagnarlo attraverso soluzioni non previste finora, ma assolutamente necessarie per abitare un mondo complesso. Soluzioni volte a “sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune”, secondo quanto auspicato da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Al-Tayyeb nel loro Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato insieme nel 2019. Torniamo però ancora allo slogan, perché qualcosa non torna in questo inneggiare vacuo ad un’Italia cristiana! A quale Dio ci si riferisce? O piuttosto a quale scimmiottamento di Dio ci si riferisce? Per provare a capire un po’ meglio, partiamo dal dato storico che in ogni religione - anche in quella cristiana - si possono avere derive fanatiche, fortemente ancorate a legalismi asfittici. “Il fanatismo infatti non è un fenomeno che possa essere circoscritto ad una religione - preferibilmente non la nostra”, scrive il teologo domenicano Adrien Candiard.

Quali sono allora le teologie, cioè i discorsi su Dio che inducono o favoriscono queste derive fanatiche? Lo stesso Candiard individua un tratto comune: sono tutte teologie che hanno messo Dio da parte e lo hanno sostituito con un qualcosa che sembra somigliargli, ma solo “come una smorfia assomiglia ad un sorriso”.

Di tutto infatti si può fare un idolo, “anche di un’immagine adeguata di Dio”, quando però voglio far entrare “l’infinito di Dio nelle mie idee anguste, nei miei entusiasmi o nel mio odio”.

Il fanatismo è allora “una messa al bando di Dio, quasi un ateismo, un devoto ateismo, un ateismo da religiosi, un ateismo che non cessa di parlare di Dio, ma che in realtà sa farne a meno molto bene”.

È un piano inclinato su cui, come vediamo, è fin troppo facile scivolare! Il tonfo finale però sarà solo un boato distruttivo di disumanità. Ma nelle nostre scuole noi vogliamo ostinatamente e caparbiamente costruire l’umano.

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