Le culle vuote sono il sintomo di un disagio più profondo

L’editoriale di Marco Zanoncelli

I recenti dati relativi alla natalità in Italia confermano un trend negativo in corso ormai da molti anni e che non accenna a migliorare. I nuovi nati residenti in Italia nel 2023 sono stati 379mila, con un tasso di natalità pari al 6,4 per mille, sceso ulteriormente rispetto al 2022 quando era 6,7. La diminuzione delle nascite rispetto all’anno precedente è di 14mila unità (-3,6%). Il numero medio di figli per donna scende così da 1,24 nel 2022 a 1,20 nel 2023. Il 2008 è l’ultimo anno in cui il dato delle nascite era cresciuto e, paragonato con quel rilevamento, il calo è davvero impressionante: meno 197mila unità (-34,2%).

Le proporzioni di tale fenomeno sono tali ormai che se non ci fosse un significativo contribuito da parte della popolazione immigrata, il sistema Italia rischierebbe nei prossimi anni un vero punto di tracollo: la popolazione diventa sempre più anziana e non viene garantito il necessario ricambio generazionale, con tutti gli effetti collaterali sul sistema sanitario, previdenziale e produttivo.

Un processo così complesso non può essere interpretato in modo semplicistico o riduttivo: ci sono senza dubbio un’ampia gamma di fattori che, in maniera differente, contribuiscono ad alimentare questo fenomeno. Vi è sicuramente un tema economico: la maternità in Italia ha un costo che molte coppie non posso permettersi e i sostegni alla nascita risultano essere davvero insufficienti, soprattutto se paragonati con gli altri paesi europei.

Vi è poi un tema sociale, in quanto la maternità rischia oggi di essere un fattore di forte limitazione alla crescita professionale delle donne, che, in assenza di misure specifiche, non riescono a conciliare i tempi del lavoro con quelli della famiglia. Anche la prospettiva esistenziale di certo non aiuta: la diffusione di legami fragili e precari non incentiva un investimento affettivo a lungo termine come può essere quello legato alla nascita di un figlio.

Tra i molti altri motivi che si potrebbero aggiungere alla lista, vi è poi un tema di carattere prettamente culturale su cui vorrei spendere due parole: fare un figlio implica la capacità di decentrarsi, di superare la mera soddisfazione delle proprie necessità personali, per mettere l’altro al centro della propria vita. Generare esige la scelta di andare oltre sé, oltre le legittime aspettative relative alla propria persona, oltre la mera ricerca del proprio godimento.

Un figlio chiede di andare oltre il qui ed ora, oltre il “mi piace” o “me la sento”, per compiere un investimento sul futuro che dura anni, forse un’intera vita. Non c’è figlio senza la disponibilità ad accogliere ed incarnare un pro-getto, che sia appunto un gettarsi in avanti, una scommessa sul futuro, la possibilità di riconoscere ed onorare un bene che va al di là del proprio piccolo io.

Temo che la mancata generatività sociale sia sintomo di un disagio più profondo ed endemico: quello della sterilità esistenziale, di un ripiegamento edonistico su sé stessi, di una incapacità di introdurre altri nel mistero bello e complesso della vita. Forse il domani fa paura perché, in fin dei conti, siamo in difficoltà a dare all’oggi un senso che vada oltre il piacere effimero dell’attimo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA