L’arresto del boss Messina Denaro, vittoria (e fragilità) dello Stato

Il 15 gennaio 1993 dopo 24 anni di latitanza veniva arrestato a Palermo Totò Riina. Trent’anni dopo, il 16 gennaio 2023, dopo trent’anni di latitanza, i carabinieri del Ros hanno messo le manette a Matteo Messina Denaro, il “capo dei capi”, capo mandamento di Castelvetrano e attuale figura apicale - per quanto ne sappiamo - della mafia siciliana. Nel maggio di trent’anni fa, nel pieno della stagione stragista, a Firenze veniva pianificato e messo in atto l’attentato di via dei Georgofili.

C’è una imprevedibile coincidenza in questi tre eventi, che fanno parte di una delle pagine più buie della storia repubblicana. La cabala e la concretezza, quella che sta dietro il lavoro di indagine delle forze dell’ordine e della magistratura, che oggi viene giustamente lodato.

Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, ha detto ieri che la giustizia ha i suoi tempi, lunghi, ma alla fine porta sempre risultati.

Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia dal 2017 al 2022, ha parlato di una «giornata straordinaria» e ha evidenziato la forza dello Stato. Un concetto ripreso più volte nella giornata di ieri da autorevoli esponenti delle forze dell’ordine e del governo. In parte, ci sia concesso, facendo un ricorso eccessivo alla retorica. Trent’anni di indagini per arrivare a catturare il latitante numero uno in Italia sono la dimostrazione che lo Stato c’è e con pazienza ha fatto terra bruciata attorno al boss, lavorando sotto traccia e in un contesto sociale difficilissimo.

Trent’anni di indagini per arrivare a catturare un uomo che negli ultimi giorni era ricoverato in una clinica di Palermo e che da un anno circa era in cura per un tumore certificano però anche che lo Stato ha davanti a sè ancora enormi elementi di fragilità, perché parte della società resta “malata”. Perché per resistere trent’anni da ricercato, nella propria terra, la Sicilia, Matteo Messina Denaro ha potuto contare su un sistema omertoso di complicità assai radicato, lo stesso di cui si erano giovati prima di lui Toto Riina e Bernardo Provenzano. Anzi, probabilmente la rete di connivenza e di protezione che ha fatto scudo a Messina Denaro è stata ancora più robusta ed efficace perché è riuscita a renderlo un fantasma in anni nei quali, soprattutto dal Duemila in poi, la tecnologia - anche applicata al lavoro investigativo - ha subito un’accelerazione impressionate.

Sostenere che Messina Denaro sia caduto perché non serviva più a Cosa Nostra sarebbe ingeneroso nei confronti delle forze dell’ordine, al quale va riconosciuto invece di aver dovuto lavorare in condizioni improbe, seguendo le tracce di un pericoloso assassino e dovendo schivare i tentativi di depistaggio messi in atto da chi lo proteggeva. Chi si chiede come è possibile che il latitante numero uno in Italia fosse tranquillamente ricoverato in una clinica del capoluogo siciliano sotto falso nome pone un quesito legittimo: in quell’ospedale nessuno sapeva? Così come è legittimo chiedersi quanto sia intricata la trama omertosa che lo ha circondato e protetto per tre decadi.

L’arresto di Messina Denaro è una vittoria soprattutto per la Sicilia per bene, per quella che rigetta la filosofia mafiosa, che è purtroppo ormai diffusa anche al Nord.

Cosa succederà ora? Probabilmente si chiude la stagione dei corleonesi, finisce con il capo mandamento di Castelvetrano la stagione stragista che era collegata a Riina, di cui Messina Denaro era considerato il pupillo. Ora lo Stato dovrà decifrare un nuovo quadro di potere. Sperando che non si debba più esultare per la fine di una latitanza lunga trent’anni.

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