
Editoriali / Lodi
Giovedì 26 Giugno 2025
L’abiura di Galileo Galilei, precursore della modernità
HISTORIA L’approfondimento di Matteo Simighini
Lodi
Il 22 giugno 1633, un anno dopo la pubblicazione del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, Galileo Galilei scelse di abiurare di fronte al Tribunale dell’Inquisizione romana per garantirsi salva la vita. Sconfessò così pubblicamente tutte le sue teorie: negò l’eliocentrismo e il moto di rivoluzione della Terra.
Una vittoria per l’Inquisizione, una sconfitta per la scienza? No. Sarebbe troppo facile liquidare in tal modo una decisione tanto complessa e così sofferta. Anzitutto, Galileo aveva già ricevuto un ammonimento da parte dell’Inquisizione nel 1616, su mandato del cardinale Roberto Bellarmino, il quale gli aveva intimato di non seguitare la divulgazione della teoria copernicana.
Tuttavia, egli lo aveva ignorato e nel 1623 aveva pubblicato “Il saggiatore”, un’opera polemica in cui smontava punto su punto la vecchia teoria tolemaica, difesa strenuamente dai Gesuiti. Già questa circostanza basterebbe a ridimensionare le accuse di codardia piovute addosso allo scienziato nel corso dei secoli. In più, nel “Saggiatore” Galileo cercò di superare il contrasto con la Chiesa di Roma, elaborando la cosiddetta teoria del “concordismo”: fede e scienza non sono affatto in contraddizione, a patto che la Bibbia sia letta come un testo teologico e non al pari di un manuale scientifico. Giacché «il grande libro della natura è scritto in caratteri matematici»: in numeri, figure geometriche, che solo gli scienziati, e non gli uomini di fede, sanno decifrare. Questa metafora, con la quale Galileo tentò disperatamente di rivendicare il suo status di scienziato e al contempo di uomo di fede, fu assai apprezzata nel secolo scorso da Italo Calvino, che la definì «potentissima», sottolineando così le straordinarie doti letterarie di Galileo, capace col suo linguaggio innovativo di costruire nuovi strumenti di comprensione della realtà. Ma tale tentativo, seppur apprezzabile sulla carta, si scontrò con la stolidità dei vertici dell’Inquisizione, che non gli perdonarono qualche anno più tardi l’uscita del Dialogo, l’opera che racchiudeva tutte le sue osservazioni, le sue teorie. La forma dialogica aveva un duplice scopo: rendere il testo maggiormente fruibile anche a un pubblico di non specialisti; rifuggire dalle accuse di ateismo, dando voce ai suoi personaggi invece che esporsi direttamente. Ciononostante, fu chiaro ai più che dietro al personaggio di Salviati, difensore delle nuove teorie copernicane, vi fosse tutto l’acume e l’intelligenza dell’autore. D’altra parte, l’altro interlocutore, Simplicio (nomen omen!) incarnava l’ottusità dei tolemaici. E così l’opera fu colpita dalla censura preventiva e Galileo fu condotto a Roma. E in quel frangente, avendo già ricevuto un avvertimento, non aveva altra scelta: abiurare o morire.
Per quanto altri illustri personaggi, trovatisi in una situazione analoga, preferirono la condanna a morte - si pensi almeno al caso del filosofo Giordano Bruno, arso vivo il 17 febbraio 1600 - accusare Galileo di pavidità sarebbe semplicistico e probabilmente ingiusto.
Per approfondire meglio questa vicenda ci può soccorrere Bertolt Brecht, che realizzò differenti versioni della pièce Vita di Galileo e in ognuna di esse ci propose, in relazione alla temperie storica di quel momento, altrettanti spunti sul tema. Per esempio, nella versione “danese” (1938), Brecht costruì positivamente il personaggio di Galileo e considerò la sua scelta di abiurare come un sottile gioco d’astuzia elaborato dallo scienziato per poter continuare a lavorare sui propri studi clandestinamente e proteggere quanto già dimostrato. Quando però la violenza della guerra divenne reale e la sopraffazione dei regimi totalitari si fece più tangibile, nella versione “americana” (1944) Galileo fu ritratto diversamente. Difatti venne presa in esame la sua responsabilità individuale e in tal modo l’abiura, da mossa scaltra, venne letta invece come un atto di codardia, un tradimento.
Nel dramma è particolarmente significativa l’autoaccusa con cui Galileo chiede perdono per aver mancato ai suoi doveri: «Un uomo che non conosce la verità è solo un idiota, ma quello che la conosce e la chiama menzogna è un truffatore».
Al netto delle diverse letture, sullo sfondo rimane un gigante della cultura europea, uno dei principali precursori della rivoluzione scientifica: uno scienziato, un filosofo, un fine letterato. Ma soprattutto un uomo, che ha fatto penosamente i conti con le proprie fragilità. Che ha combattuto contro l’intolleranza della Controriforma. Un “non-eroe” che ha indicato la via nel tortuoso cammino verso la modernità.
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