La vera gioia e l’umanità gaudente dei social network

Il commento di Marco Zanoncelli

Avete notato quanti volti felici vediamo sui social? Quando scorri le pagine personali di amici e contatti, ti imbatti in una foresta di sorrisi, facce radiose, piene di gioia, di serenità e pace. Navighi sui social ed emerge una umanità gaudente, persone felici di stare al mondo, gente che si diverte, che visita posti bellissimi o degusta cibi succulenti. C’è una singolare vitalità sui social che tutti noi abitiamo, vite stranamente appagate e prospere, spesso euforiche e radiose.

È strano perché quel “mood” di fondo, quella felicità endemica, non è la stessa che percepisci quando prendi il treno la mattina, quando ti siedi in ufficio o quando entri in un bar o in un supermercato. C’è una discrepanza evidente tra il grado di felicità rappresentato nel mondo virtuale e quello percepito nella vita quotidiana.

E tale disparità accresce alla luce delle letture sociologiche che misurano non solo l’umore del momento attuale, ma anche le tendenze di fondo della nostra cultura. È il tempo delle “passioni tristi”, come alcuni definiscono questo periodo storico; è un tempo di assenza di ideali, di visioni ampie, di orizzonti di senso, un tempo che ha visto la fine delle grandi narrazioni, come dice Lyotard. Viviamo anni caratterizzati da un ritiro anonimo nel privato, in cui la passione socio-politica stenta ad affermarsi, in cui, smarrito ogni senso dell’avvenire, ognuno si è rinchiuso nel proprio piccolo guscio, interessato solo al proprio destino personale.

Come conciliare questa euforia virtuale con una sensibilità depressa che attanaglia la vita reale? Come tenere insieme questi due elementi così evidentemente divergenti? Tale polarità tende ad alimentare sé stessa e ad acuire ulteriormente il fossato che separa i due mondi: più osservi l’apparente felicità della gente che vive il tuo mondo, più la tua piccola esistenza appare ancora più triste ed insignificante, modesta e grigia. L’esultanza altrui (o per lo meno ciò che i social restituiscono) enfatizza la triste normalità della propria vita, segnata da una ordinarietà fatta di lavoro, famiglia, pochi amici e una rete sociale più o meno ampia. Si instaura un circolo vizioso in cui più la vita virtuale appare attraente, più quella reale si dimostra mediocre ed inadeguata.

Alla radice di tutto questo vi è certo una buona dose di narcisismo di cui la nostra società certo non difetta. I social ci offrono uno straordinario palcoscenico in cui ciascuno di noi può mettere in scena una teatrale rappresentazione della propria vita, un racconto, fantastico come lo sono tutti i racconti, delle nostre esistenze. Ci intriga dare di noi un’impressione vincente, sembrare gente felice, affermata, che sa godere delle cose e dei piaceri più raffinati che la vita può offrire. Vi è una finzione, come è naturale che sia: ogni narrazione è sempre una interpretazione delle cose; non è mai uno specchio fedele, semmai in qualche modo deformato, influenzato dalle intenzioni e dalle sensibilità.

Eppure, credo che questo esibizionismo a basso costo, seppur importante e decisivo, non rappresenti la sola e nemmeno la più profonda delle cause. Chiunque lavori con i ragazzi ed i giovani sa bene a cosa mi riferisco. Il punto, secondo me, è che la nostra società (alla fine ciascuno di noi, per essere concreti), confonde la gioia con l’eccitazione, le felicità con l’ebrezza, la contentezza con il tasso di adrenalina che scorre nelle vene. Forse la sorgente di molte delle nostre infelicità è tutta in questo equivoco semantico. È quando iniziamo a confondere la gioia con i brividi, l’allegria con la pelle d’oca, la contentezza con l’appagamento che iniziano i nostri problemi.

Dicevo dei giovani: quanti di loro dichiarano la fine di un amore solo perché quella sensazione di farfalle nella pancia si è naturalmente – e giustamente aggiungo io – esaurita? Quante amicizie si raffreddano perché manca il trasporto della passione, la febbre dell’emozione o l’infatuazione del legame? I social alimentano la pretesa, un po’ ossessiva, di una eccitazione perenne e di un fremito senza limite: è forse questa la ragione più nascosta della nostra inquietudine. In fondo, se osserviamo bene le cose, Facebook, Instagram, WhatsApp ci raccontano di gente emozionata, non necessariamente felice, persone trepidanti ma non per questo contente.

Non dirò che la gioia sta altrove né che la serenità consiste nell’assenza di emozioni. Non credo a questa atarassia in salsa moderna. La nostra umanità vibra sotto la spinta del desiderio, della passione e dell’anelito: è così che restiamo uomini e donne. Eppure, non possiamo misurare la gioia con la quantità di serotonina che abbiamo in circolo. La gioia ha a che fare con il sentirci a casa, capaci di abitare uno spazio ed un tempo con fiducia e speranza; essa afferisce al senso che sappiamo dare alle cose, agli eventi e alla nostra intera esistenza; essa origina da un cuore riconciliato che sa custodire ogni cosa come un dono prezioso.

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