La studentessa suicida e il dilemma dell’eccellenza

Il commento di Marco Zanoncelli

Il recente dramma della studentessa suicida nel bagno di un’università milanese costringe noi, mondo adulto, a fare nuovamente i conti con gli standard e i valori che, forse inconsciamente, trasmettiamo alle nuove generazioni. Il fallimento percepito dalla studentessa diciannovenne è all’origine del tragico gesto, così come lei stessa scrive nel biglietto di addio, un fallimento per lei insostenibile rispetto alle aspettative del mondo adulto.

Chi è genitore ed educatore conosce bene la fatica e la frustrazione che derivano dal gestire i fallimenti dei figli. La tentazione di trasformare i loro fallimenti in nostri fallimenti (educativi o esistenziali) ci spinge ad alzare la richiesta di prestazione nei loro confronti e mal digerire quelle sane cadute o regressioni che fanno parte di un qualsiasi percorso di crescita.

C’è una parola che sintetizza bene questo modo di guardare il mondo che segna profondamente la nostra cultura: il termina eccellenza. Ho scoperto che nel Ministero dell’Istruzione e del Merito esiste persino uno specifico dipartimento all’eccellenza. Se poi, dall’ambito dell’istruzione, passiamo a quello economico, le spinte ad eccellere non si contano più: ogni azienda lotta per primeggiare, per essere la prima, la più riconosciuta, la più ricca, la più avanzata, in una corsa di cui si fatica a scorgere il traguardo.

Tuttavia non appena fai due passi indietro e cerchi di comprendere in maniera un po’ più critica questa coazione all’eccellenza, ti rendi conto che le cose non sono così piane e lineari. La teoria dei giochi ci insegna che esistono due tipologie di gioco: il gioco finito (quello che ha regole condivise, un numero definito di giocatori, un tempo preciso di gioco e chiari criteri di vittoria e sconfitta) ed i giochi infiniti (ossia quelli in cui il numero dei giocatori può variare, la durata non è prestabilita a priori e non esistono regole condivise né criteri chiari di vittoria). Nel primo caso lo scopo del gioco è superare gli avversari, nel secondo caso lo scopo è prolungare il gioco. Il calcio o il basket sono un buon esempio del primo tipo: alla fine di ogni partita non facciamo fatica a sapere chi ha vinto e chi ha perso; l’amicizia, invece, è un buon esempio del secondo tipo: nessuno gioca per superare l’altro ma solo per prolungare il più possibile la “partita”. Quando un “giocatore finito” gioca un gioco finito il sistema trova un suo equilibrio. I problemi nascono quando un giocatore gioca un gioco infinito pensando fosse finito. Il mondo del business, le relazioni, ma in fondo l’intera vita, sono dei classici giochi infiniti: non abbiamo avversari da sconfiggere perché in realtà non ci sono nemmeno criteri condivisi di successo. Prendiamo la carriera: cosa significa eccellere? Avere più soldi? O più notorietà? Molti dipendenti o molto potere? Molti investimenti o molti soldi in banca? Molti articoli pubblicati o una vita familiare soddisfacente? In base a cosa diciamo che una persona è “eccellente”? Capite che, in un contesto “infinito”, la domanda non ha proprio senso…

Se ogni gioco finito ci spinge ad essere “i migliori”; quello infinito ci invita ad essere semplicemente “migliori”: è un semplice articolo ma fa tutta la differenza. Nella vita (il gioco infinito per definizione) non siamo chiamati ad essere i migliori (rispetto a cosa? In base a quale criterio?) bensì ad essere persone migliori di quanto fossimo ieri. Non c’è nemico da combattere, né alcuna classifica con cui misurarsi né gara da vincere, ma solo la chiamata ad essere la versione migliore possibile di noi stessi, giorno dopo giorno. È evidente come la sconfitta possa essere vissuta diversamente nei due diversi contesti: nel primo caso si tratta di un fallimento, di una catastrofe irrimediabile e di una disfatta. Nel secondo caso essa diviene una esperienza da cui imparare e grazie alla quale migliorare e crescere.

Forse dovremmo meglio educare i nostri figli a distinguere il tipo di gioco che stanno giocando con la loro vita, evitando loro assurde frustrazioni, sensi dolorosi di fallimento o di disfatta. L’unicità di ciascuno di noi è un appello a diventare sempre di più noi stessi, rifiutando criteri estrinseci, pressioni esterne o ridicole classifiche di successo.

Racconta Kafka, in quello straordinario racconto che è “Davanti alla Legge”, che un uomo attende invano davanti a un portone per poter accedere alla Legge. Il guardiano lo costringe ad una attesa infinita a cui l’uomo non si sottrae nella speranza di riuscire ad entrare. Prima di morire, sconsolato per l’estrema attesa, l’uomo chiede al guardiano: «Tutti si sforzano di arrivare alla legge come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?». Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso». È proprio così: c’è un traguardo originale che solo tu puoi raggiungere nella tua vita. Ricordiamolo ai nostri figli!

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