La sommossa in atto in Iran non è ancora una vera rivoluzione

Il commento di Massimo Ramaioli

Massimo Ramaioli si è laureato all’Università di Pavia in Scienze Politiche e ha poi proseguito gli studi con esperienze negli Stati Uniti, in Africa e in Medioriente. È Visiting Professor presso la Al-Akhawayn University di Ifrane, Marocco

Le proteste in Iran, che durano ormai da tre mesi, non sembrano sul punto di fermarsi. Anzi: acquisiscono nuovo vigore, sia con la partecipazione di strati sociali più ampi, sia mantenendosi distribuite su tutto il territorio nazionale. Di contro, la repressione del regime si intensifica. È dunque naturale chiedersi: stiamo assistendo ad una rivoluzione?

Innanzitutto, una rivoluzione politica, per essere tale, sfocia necessariamente in un cambio di regime. Cambiamenti sociali, economici e culturali di solito accompagnano tale cambiamento: ma sono elementi complementari. Una rivoluzione in Iran, per essere tale, deve dunque portare alla caduta della Repubblica Islamica, al potere dal marzo del 1979. Il regime è guidato dal clero sciita, che controlla le istituzioni chiave dello stato

Nel corso degli anni, la Repubblica Islamica, pur ammettendo alcuni elementi di stampo democratico (come le elezioni presidenziali e quelle parlamentari), si è dimostrato un regime sostanzialmente incapace di gestire o tollerare il dissenso.

Ad un sistema di governo che andava ossificandosi, si contrapponeva una società civile per larghi strati istruita, ambiziosa, giovane, capace. Per mantenere il controllo, il regime ha usato diversi strumenti. Campagne di legittimazione e propaganda, basate sul mito fondante della rivoluzione, sul ruolo dell’Islam sciita nell’identità nazionale, sull’opposizione all’imperialismo americano, sul confronto con i vicini arabi a maggioranza sunnita e con lo stato di Israele. Oppure, ampi sussidi economici alle fasce disagiate (ridistribuendo i lauti profitti dell’industria petrolifera) e un generoso (relativamente parlando) stato sociale. Infine, quando tutto questo non funzionava più, ecco l’apparato di sicurezza: non solo polizia ed esercito, ma anche organizzazioni parallele come i “Guardiani della Rivoluzione” e le milizie paramilitari (“basiji”) ad essi affiliate; per non parlare di un sistema giudiziario che risponde non ai dettami dello stato di diritto ma alla sicurezza politica del regime stesso.

Ecco che allora una delle questioni simbolo delle Repubblica Islamica, ovvero le regolamentazioni del vestiario, in particolare l’obbligo del velo per le donne, diventa motivo scatenante di proteste di massa. Le cause profonde sono da cercarsi nel fallimento complessivo, agli occhi dei manifestanti, del progetto politico della Repubblica. La postura internazionale ne ha fatta un paria, isolando l’Iran dal resto del mondo. I contatti con Russia e Cina sono labili, e non compensano la mancanza di relazioni con l’Occidente. L’economia è infatti schiacciata dalle sanzioni americane, e afflitta da fenomeni di corruzione vasti, sistematici ed endemici. L’uso strumentale della religione l’ha svuotata di contenuto spirituale e devozionale, mettendola miseramente al servizio del regime. La formazione di una classe politica inamovibile, non responsabile verso i cittadini, e impermeabile a richieste di cambiamento ha decretato la perdita di legittimità dell’intero sistema.

Le proteste sono dunque continue, vaste, geograficamente distribuite. In un primo momento, giovani e studenti sembravano essere i soli partecipanti. Ma vi è ora notizia di scioperi a sostegno delle manifestazioni in settori chiave come l’industria petrolifera e soprattutto nei bazaar, ovvero i piccoli-medi commercianti: considerati conservatori e una delle colonne del regime, stanno vieppiù passando dalla parte dei dimostranti.

Le dimostrazioni non chiedono cambiamenti generici, o la rimozione di alcune specifiche disposizioni, o riforme del sistema. Per esempio, l’annuncio della rimozione della “polizia morale” (responsabile della morte di Mahsa Amini, evento che ha scatenato le proteste) non ha fermato, né rallentato le proteste. I dimostranti chiedono una rivoluzione. È un gioco a somma zero. La risposta del regime è stata prevedibilmente brutale: incapace di riforme sostanziali che ne comporterebbero fondamentalmente la auto-liquidazione, ha reagito facendo circa 500 morti, un numero imprecisato di feriti, oltre 16.000 arresti, tortura sistematica nelle carceri, inasprimento delle pene, incluse condanne a morte. In altre parole, il regime ha fatto quadrato.

Un regime autoritario può sopravvivere fintantoché elimina ogni alternativa politica. La mancanza di una leadership nell’opposizione può rendere più difficile per il regime reprime una protesta acefala. Tuttavia, essa rende anche complesso il formarsi di un progetto politico alternativo che possa galvanizzare l’opposizione stessa, e quindi offrire una chiara alternativa alla Repubblica Islamica. Infine, vi è la tendenza a vedere nei moti di questi mesi quello che vorremmo accadesse: ovvero, la rimozione di un brutale regime con uno di stampo democratico. Ma segni di divisioni interne al regime non si sono visti: non vi sono defezioni, sintomo chiave per un crollo di un sistema autoritario. Il controllo degli apparati di sicurezza è ancora totale, così come la loro fedeltà. In secondo luogo, se anche vi fosse davvero una rivoluzione, non è detto che essa porti ad uno sviluppo in senso democratico. Una dittatura militare, magari sotto il controllo dei Guardiani della Rivoluzione, con rimozione dell’ormai vetusta classe clericale, è una opzione altrettanto, se non maggiormente, possibile.

Cosa rimane? Certo la possibilità, non la certezza, di una rivoluzione. E lo slogan delle proteste: “donne, vita, libertà” ci dice tutto rispetto al futuro per il quale gli Iraniani stanno combattendo.

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