La resistenza delle comunità cristiane a Gaza

Da giorni l’esercito israeliano ha intrapreso un massiccio attacco contro la città di Gaza per ottenerne il pieno controllo, un’offensiva che non ha risparmiato neppure i civili e le comunità religiose. Alla chiesa latina della Sacra Famiglia e al complesso greco-ortodosso di San Porfirio è stato notificato, infatti, un ordine di evacuazione. Ciononostante, il cardinale Pierbattista Pizzaballa e il patriarca ortodosso Teofilo III, a capo delle due comunità cristiane, non hanno alcuna intenzione di spostarsi dalla città. Non si tratta di un atto di eroismo, ma di responsabilità. Difatti, il trasferimento forzato di queste comunità religiose lascerebbe ancora più soli centinaia di civili, fra cui persone con disabilità, anziani, bambini, privi di altri luoghi di ricovero, senza dimenticare le linee di approvvigionamento che le due chiese garantiscono e le attività di assistenza in loco fornite dalle Suore Missionarie della Carità. Il diritto internazionale imporrebbe a Israele di non fare fuoco contro le comunità religiose, ma il condizionale è d’obbligo. Il governo israeliano, infatti, ha più volte calpestato le norme internazionali durante la guerra e la chiesa della Sacra Famiglia è già stata colpita dal fuoco dei tank israeliani qualche mese fa. Gli scenari futuri, pertanto, sono molto incerti: nessuna garanzia. Né gli Stati Uniti, né l’Unione europea, che sembra ormai condannata a una sconfortante irrilevanza sul piano geopolitico, sembrano in grado di imporre alcun limite alla massiccia mobilitazione delle forze armate israeliane.

E dietro all’ordine di evacuazione inviato ai due patriarchi di Gerusalemme c’è una logica inquietante: lo sfollamento dei palestinesi è l’unica via per la cessazione del conflitto. A questa narrazione Pizzaballa e Teofilo III si sono opposti con fermezza in un comunicato congiunto: «Non può esserci alcun futuro basato sulla prigionia. Non vi è alcuna ragione che giustifichi lo sfollamento deliberato e forzato di civili».

Sradicare migliaia di persone dalla propria terra non può essere la soluzione, non sono queste le premesse di una pace duratura.

In calce al comunicato, i due patriarchi hanno voluto fare eco alle parole che Leone XIV ha pronunciato durante l’udienza di sabato 23 agosto a una delegazione impegnata nella restituzione delle Isole Chagos alla Repubblica di Mauritius: «Tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti, in particolare il diritto di vivere nelle proprie terre; e nessuno può costringerli a un esilio forzato». Parole che ben si applicano anche alla situazione a Gaza.

La pace «disarmata e disarmante» che il Pontefice non si stanca di invocare appare molto lontana. A farne le spese, ancora una volta, i più deboli, coloro i quali la guerra la subiscono soltanto. In uno scenario simile, la decisione di non abbandonare Gaza da parte dei due primati di Gerusalemme è un fulgido esempio di resistenza. Alla logica della violenza si risponde con l’ostinata ricerca della pace. All’annuncio del governo israeliano, «apriremo le porte dell’inferno», si è deciso di opporre una ferma opposizione, dimostrando che anche alle porte dell’inferno, luogo in cui la nostra umanità si perde, è possibile restare umani e mantenere alto il valore della vita di ciascun individuo, nessuno escluso.

Questa è la resistenza: nuotare controcorrente, procedere controvento, sfidare la logica della convenienza e combattere contro i facili pronostici, in virtù di un ideale più alto: la difesa della dignità della vita umana.

«Grande è il popolo che ha figli morti di una morte santa, semplice e austera nell’immensità dei campi di battaglia. Essi riposano nella terra, e a vegliarli hanno il cielo, il sole e le nuvole». Le parole di Vasilij Grossman, testimone diretto dell’invasione tedesca in Unione Sovietica, sembrano riecheggiare ancora oggi tra le macerie di Gaza e a queste possiamo aggiungerne altre: grande è l’esempio di coloro i quali, di fronte agli orrori della guerra, non abbandonano i più deboli, ma condividono con loro lo sforzo - insopportabile, talvolta - per ottenere infine la pace. A ciascuno di loro sia data la «gloria che viene dal lavoro, dall’intelligenza, dall’onore e dalla libertà»: la gloria di restare umani anche alle soglie dell’inferno.

*Laureato in Scienze Storiche all’Università Statale degli Studi di Milano

© RIPRODUZIONE RISERVATA