La memoria del ghetto
come antidoto ai nuovi muri

di Ivano Mariconti*

«Oggi, sabato 12 ottobre, giornata orrenda [...] Gli altoparlanti hanno annunciato la suddivisione della città in tre parti: un quartiere tedesco che comprende il centro e via Nowi Świat, un quartiere polacco e un quartiere ebreo. E a poco a poco il ghetto si va formando [...] Non c’è neppure una strada di cui si sappia con sicurezza che sarà compresa nel Ghetto. Ho sentito di un tale che ha cambiato casa sette volte per via del continuo spostamento dei confini del Ghetto. Un’altra persona quattro volte. Una vita senza pane, senza un cucchiaio di cibo nel corso di lunghi anni, determina un effetto traumatico sulla psiche degli uomini. Molte persone esaurite e debilitate sprofondavano in estrema apatia. Si sdraiavano sui giacigli e rimanevano lì tanto a lungo da non avere più la forza di rialzarsi». Così scriveva Emanuel Ringelblum, storico polacco di origine ebraica e vittima lui stesso della Šoa (Shoah) nel suo diario ritrovato e pubblicato con il titolo «Sepolti a Varsavia», in cui documentò la vita del Ghetto di Varsavia tra il 1939 e il 1943.

Fu il più grande tra i ghetti nazisti in Europa arrivando a contenere tra i 450.000 e i 500.000 abitanti in una superficie di 3,1 chilometri quadrati.

All’inizio del 1943, le numerose morti per fame e malattia ed i progressivi “trasferimenti” della popolazione al campo di sterminio di Treblinka, ne avevano ridotto il numero a circa 70.000 unità, persone in maggioranza ancora abili al lavoro.

Il 18 gennaio le SS entrarono nel ghetto con l’intenzione di deportare altre 8.000 persone. I tedeschi riuscirono a rastrellare circa 5.000-6.500 persone ma poi un gruppo di resistenti, in possesso di armi precedentemente contrabbandate nel ghetto, fece fuoco contro gli aguzzini, causando loro alcune perdite.

Nel ghetto restavano circa 62.000 persone, che nei giorni e nelle settimane successive cercarono di prepararsi come potevano all’inevitabile scontro finale, raccogliendo armi e costruendo rifugi e barricate.

In conseguenza di questi avvenimenti, il 16 febbraio 1943 Heinrich Himmler ordinò l’immediata e completa liquidazione del ghetto: «Per motivi di sicurezza ordino che il ghetto di Varsavia sia smantellato, dopo aver trasferito all’esterno il campo di concentramento e avere in precedenza utilizzato tutte le parti delle case e i materiali di qualsiasi tipo che possono comunque servire. La demolizione del ghetto e lo spostamento del campo di concentramento sono necessari, perché altrimenti non porteremo mai la calma in Varsavia e, permanendo il ghetto, non si potrà estirpare la delinquenza. Per la demolizione del ghetto dev’essermi presentato un piano generale. In ogni caso si deve fare in modo che l’area d’abitazione finora esistente per 500.000 sottouomini e mai adatta per dei tedeschi, scompaia dalla superficie della terra».

Il giorno per l’avvio dell’operazione fu stabilito nel 19 aprile, vigilia della Pesach (Pasqua ebraica e giorno precedente al compleanno di Hitler, che avrebbe in questo modo festeggiato l’annientamento del ghetto).

Proprio in questi giorni abbiamo celebrato la Memoria degli 80 anni dalla rivolta del Ghetto di Varsavia.

Il presidente della Repubblica Mattarella e il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier si sono recati in visita a Varsavia, il parlamento europeo ha osservato un minuto di silenzio.

Contemporaneamente a questa Memoria, il 19 aprile 2023 una delle opere dell’artista Alexsandro Palombo posta sui muri del Memoriale della Shoah di Milano e che raffigura la famiglia Simpson con la casacca a strisce dei deportati nei lager nazisti, è stata imbrattata con dei segni neri che hanno cancellato totalmente le stelle di David.

La coincidenza con la ricorrenza dello Yom Ha Shoah, Giorno della Memoria per le comunità ebraiche nel mondo, non è certo casuale.

La costruzione del Ghetto e l’anniversario della sua totale distruzione ci riportano ai nuovi ghetti e ai nuovi muri che oggi vengono costruiti.

Mauro Magatti («Avvenire») ci ricorda che «ad oggi si contano circa 80 muri per quasi 50.000 km, l’equivalente della circonferenza del pianeta. A fine del 2022 sui confini europei si contavano 2048 chilometri di barriere, quando nel 2014 erano 315 e zero nel 1990. A seguito dell’invasione dell’Ucraina, anche la Finlandia ha cominciato a costruire un muro sulla lunga frontiera con la Russia. E per fronteggiare la questione migratoria qualche mese fa dodici stati membri hanno chiesto alla Commissione finanziamenti per la costruzione di barriere fisiche di difesa».

Non è sicuramente ricostruendo ghetti, non innalzando barriere, non ricorrendo a stereotipi razzisti che riusciremo a costruire il futuro per le nuove generazioni.

Lo ricorda il presidente Mattarella nella sua recente visita di Stato in Polonia: «Nessuno Stato, da solo, può affrontare un problema così epocale. Ma l’Unione europea può farlo con un’azione coordinata e ben organizzata. E questo è un tema che richiama alla responsabilità dell’Unione, e richiama a una nuova politica di immigrazione e di asilo dentro l’Unione, superando vecchie regole che sono ormai della preistoria […] Dobbiamo intensificare la nostra azione, sapendo che in futuro potremo contare sempre meno sulle testimonianze dirette di quanto avvenuto e che dovremo trasmetterle e affidarle alle nuove generazioni».

La Memoria del Ghetto di Varsavia è dinanzi a noi e ci invita a non costruire altri muri.

L’unico muro che dovremmo costruire in ogni città è un piccolo e grigio muro che riporta un’unica parola: indifferenza. Un muro silente che ricorda a tutti noi qual è il vero muro da abbattere tra persone, stati ed istituzioni.

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