Il sacrificio di Pierre Claverie nell’Algeria post coloniale

Il commento di Elena Bulzi

Il 1° agosto 1996 il boato di una bomba rompe la vita di Pierre Claverie, vescovo di Orano e dell’amico Mohamed Bouchikhi, il suo giovane autista musulmano.Durante il funerale, nella cattedrale gremita, una donna musulmana disse: “Era anche il mio vescovo”. È una frase che condensa ciò che il vescovo Pierre fu in quell’Algeria dove era nato nel 1938 ed in cui successivamente scelse di farsi ospitare.

Pierre Claverie era infatti figlio di francesi stabilitisi ormai da qualche generazione in Algeria, colonia francese. Nel 1962, anno dell’indipendenza dalla Francia coloniale, l’Algeria iniziava un lento processo di democratizzazione, interrotto però dalla guerra civile degli anni ’90.

La vicenda di Pierre Claverie si distende appunto in questi decenni ed è possibile ripercorrerne le tappe principali anche attraverso le sue parole di uomo che corre fino in fondo “il rischio dell’accoglienza”. Essere cristiani in Algeria significa infatti innanzitutto farsi ospitare come minoranza dentro una cultura ed una lingua permeate dall’identità araba ed islamica.

Pierre Claverie si accorge di cosa effettivamente questo comporta solo dopo una “presa di distanza” dall’Algeria. Nel 1957 infatti era tornato a Grenoble per affrontare gli studi di ingegneria, ma aveva intanto anche maturato la scelta di entrare nell’ordine dei Domenicani: verrà ordinato sacerdote nel 1965 e due anni dopo rientrerà in modo definitivo in Algeria.

Durante questo decennio di distanza, l’alterità dell’Algeria emerge con chiarezza in lui, insieme alla scelta di una radicale apertura agli altri: sarà la sua precisa traiettoria di vita anche sacerdotale.

In Algeria era nato infatti ed era vissuto frequentando la comunità dei cattolici francesi, ma - dice il giovane domenicano - “ascoltando i discorsi sull’amore del prossimo, non ho mai sentito dire che l’arabo fosse il mio prossimo”. Era vissuto infatti in una “bolla coloniale” e in una “bolla cattolica”, dove l’autoreferenzialità impediva qualsiasi autentico contatto. L’emergere di questa evidenza - scrive - “ha fatto esplodere il mio universo chiuso” dato che “il primo riflesso istintivo, davanti a qualcuno di veramente diverso, altro, è la diffidenza, il ripiegamento su di sé, la difesa. Fondando la loro identità su delle identità radicali, trascendenti, universali, i credenti non sono naturalmente portati alla tolleranza, anche se il loro messaggio invita fortemente a farlo”.

A questa presa di consapevolezza segue la convinzione che il dialogo, anche tra religioni diverse, passa anzitutto attraverso le persone e non può essere “ridotto a un confronto tra sistemi dottrinali compartimentati e fuori dal tempo, ma dove si associa il contenuto alla forma, il messaggio al modo di viverlo” (C. Monge, G. Routhier, Il martirio dell’ospitalità).

Padre Pierre si accorge che la negazione del diritto all’esistenza ed all’alterità è la matrice di ogni violenza, mentre il faticosissimo riconoscimento e l’accettazione della diversità diventano “coscienza progressiva della divinità”. È infatti il Dio di Abramo e il Dio di Gesù Cristo colui che per primo ha fatto irruzione nell’umano, chiedendo ospitalità e diventando solo così anche lui stesso ospitale. Questo dono ha reso possibile che “la presenza dell’altro diventi il luogo inalienabile dove Dio stesso può apparire”.

Non sono riflessioni asettiche di un teologo, perché monsignor Pierre, intanto diventato vescovo di Orano nel 1981, non si fa nessuno sconto sul banco di prova della differenza algerina in cui vive e che vuole comprendere sempre più in profondità: per questo studia intensamente la lingua e la cultura araba, al punto da insegnarla agli algerini stessi.

È perfettamente consapevole però che “l’altro, per la sua sola presenza e differenza, rischia di mettere in crisi il [proprio] fragile equilibrio, sempre da riconquistare”.

Ma il vescovo Pierre non rinuncia a rimanere costantemente sulla soglia della propria identità cristiana, lasciandosi interpellare e destabilizzare, accordando agli altri “la dignità di un’identità da scoprire”, unica via per poter vivere insieme. Si domanda infatti e domanda: “Tutto quello che un cristiano risente presente in una società musulmana è anche un interrogativo rivolto alla propria coscienza. È disposto a ceder agli altri quello che stima giusto per sé?”.

È la “teologia pratica del dono di sé al seguito di Cristo”, percorso di vita esigente che il vescovo Pierre compie non certo spinto da “chissà quale perversione masochista o suicida, ma a causa del Messia crocifisso. Perché la croce è la lacerazione di colui che non sceglie una parte o l’altra perché, se è entrato nell’umanità, non era per rigettare una parte dell’umanità. Si installa al cuore delle divisioni e cerca di avvicinare gli estremi”. Grazie vescovo Pierre!

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