Il peso della comunicazione social e la storia di Giovanna

Il commento di Marco Zanoncelli

Quanto accaduto a Giovanna Pedretti, la titolare della pizzeria di Sant’Angelo Lodigiano, ha scosso in profondità le coscienze di tutti noi. Questo giornale ha dato ampia cronaca dell’accaduto raccontando i diversi passaggio di quanto successo. Prima il post dell’anonimo cliente, poi la risposta della ristoratrice, quindi il caso mediatico con una enorme eco sulla stampa nazionale e sui social ed infine la tragica fine della donna. Una serie di eventi che lasciano davvero disorientati e sgomenti.È quanto meno inopportuno entrare nel merito della questione (considerando il fatto che la dinamica del fatto è ancora all’attenzione degli inquirenti) ma forse la storia di Giovanna ci consente di porre l’attenzione su un tema che spesso preferiamo ignorare ma che la vicenda di Sant’Angelo ha tragicamente riportato di attualità. Mi riferisco al ruolo e al peso della comunicazione dei social sulla vita di tutti noi e della necessaria responsabilità che è connessa all’utilizzo delle nuove tecnologie.

Lo psicologo Albert Bandura ha indagato questo fenomeno introducendo nel dibattito pubblico il termine di “disimpegno morale” (Albert Bandura, Disimpegno morale - come facciamo del male continuando a vivere bene, edizioni Erikson). Bandura allude a quel sottile e subdolo meccanismo grazie al quale il soggetto elude la propria responsabilità personale a seguito di azioni immorali o illecite verso il prossimo. È esattamente, come dice il sottotitolo del libro, la strategia che ci permette di fare del male e di vivere bene, senza rimorsi o sensi di colpa. Grazie alla dinamica del disimpegno morale ci autoassolviamo, giustificando il nostro agire e rimuovendo il senso che colpa che potrebbe nascere dal nostro comportamento.

Lo psicologo individua alcuni dispositivi che consentono questa deresponsabilizzazione personale: il primo è la “giustificazione morale” che tende a nobilitare comportamenti lesivi per presunti fini lodevoli. Assumendo l’antico motto che il fine giustifica i mezzi, il soggetto perdona l’atto violento od illecito in nome del fine positivo che vuole raggiungere. Ad esempio, il fatto di voler a tutti i costi perseguire la verità sarebbe una giustificazione ragionevole per quanto si è compiuto. Le buone intenzioni, secondo questo principio, coprirebbero e giustificherebbero anche comportamenti immorali.

Una seconda strategia riguarda la “diffusione della responsabilità”: una azione diviene meno grave quando è stata compiuta da molte persone. In fondo la massa funge da elemento di attenuazione della responsabilità singola e limita il senso di dovere morale del soggetto. Quando un’azione è fatta da molti, il soggetto è come assorbito dalla folla e, per questo motivo, assolto da ogni colpa.

Infine Bandura indica un terzo meccanismo, quello dell’”attribuzione della colpa alla vittima”: è la vittima stessa la responsabile dell’accaduto, a motivo della sua possibile debolezza, fragilità mentale o fisica, il suo passato o le sue precedenti azioni. Questa dinamica tende a spostare dall’io al tu la responsabilità morale, in un gioco di inversione di ruoli che fa della vittima il carnefice e del carnefice la vittima.

Difficile non intravedere alcuni di questi dispositivi nella triste vicenda di Giovanna. Indipendentemente dalle responsabilità legate al fatto specifico (e che non sta a noi determinare) è forse invece opportuno non distogliere gli occhi e la testa dal potere comunicativo dei social e del loro potentissimo effetto sulla vita concreta delle persone. Un interessante libro sul tema ha come titolo “Virtuale è reale”. Il sottotitolo recita: “Aver cura delle parole per aver cura delle persone”. Mi pare un’ottima sintesi della questione.

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