I volontari accorsi in Emilia interrogano la nostra società

di Marco Zanoncelli

Chiunque abbia preso qualche volta un mezzo pubblico, in particolar modo un treno, si sarà prima o poi imbattuto in una singolare esperienza: mi riferisco a quegli strani viaggiatori che, nel bel mezzo di una carrozza affollata, ascoltano la musica ad alto volume, fanno chiamate in viva voce o discorrono, gridando, con altri passeggeri, incuranti della presenza di altre persone. Classificare questi episodi sotto la voce “maleducazione” credo che sia sì naturale, ma, forse, non sufficiente. Temo che al di là della cafoneria, ci sia dell’altro che merita di essere riconosciuto e compreso.

Emmanuel Levinas sosteneva che ciascuno di noi costruisce un “mondo” nel quale il soggetto è al centro e di cui gli altri sono semplici presenze funzionali.

È un mondo organizzato attorno al principio di godimento del soggetto: strutturo la realtà (gli impegni, le relazioni, i tempi, gli spazi, i pensieri, i sentimenti) attorno a me, per garantire il mio godimento, il mio piacere, la mia soddisfazione, possesso e consumo. In questo “mondo” (che non è uno spazio fisico ma una modalità di vivere l’esistenza) esisto solo io, i miei bisogni, i miei progetti, le mie attese. È un mondo assai simile a quello dei bambini, un mondo, per dirla con il filosofo Petrosino, in cui “tutto è a portata di mano, ma di una mano che porta alla bocca”. È, in fondo, un “mondo” che il soggetto divora voracemente, che consuma, usa, sfrutta in nome del suo personale diletto.

È un po’ quel che accade su quelle carrozze a cui accennavo all’inizio: ciascun passeggero ha le proprie esigenze (una telefonata, un po’ di musica, una conversazione) e le altre persone risultano presenze accessorie, irrilevanti, mute.

La cosa strana della nostra esperienza umana è che, accanto a questi singolari individui egoriferiti, esistono poi persone capaci di attraversare l’esistenza con un passo diverso. Mi ha stupito (confesso non più di tanto) leggere sui giornali delle migliaia di giovani e meno giovani che sono accorsi in Emilia-Romagna per aiutare nella fase del soccorso post alluvione. Sono dei perfetti sconosciuti, gente che non avrebbe alcun obbligo o dovere verso questi alluvionati, ma che sentono in qualche modo l’impulso all’aiuto, alla cura e alla solidarietà. Dicevo che la cosa non mi sorprende più di tanto perché, se ci pensate bene, tutte le passate emergenze, dal Covid ai terremoti, sono state delle straordinarie occasioni in cui questa “ordinaria” solidarietà si è messa in moto, attivando un moto collettivo di aiuto che parrebbe impossibile in altri tempi. Anche in questo caso credo valga la pena chiedersi: perché? Mi pare che derubricare questa logica di cura alla categoria della “pietà” e del “soccorso” non renda sufficientemente la verità di quello che è accaduto.

Sempre Levinas ci istruisce sul fatto che il “mondo” autoreferenziale del godimento implode quando il soggetto fa una particolare esperienza: quella del “volto” dell’altro. Ciascuno di noi è in grado di riconoscere un tu che è “un altro me”, anch’esso portatore di una visione del mondo, di desideri e attese. È di fronte al volto concreto dell’altro che il “mondo dei piaceri” collassa, esplode, si distrugge. Questo accade nell’istante esatto in cui si fa esperienza di un tu di cui non posso godere, che non posso possedere o usare. Questo volto – straordinaria intuizione del filosofo francese – non si impone per la sua forza o potenza, bensì per la sua “nudità”, per la sua fragilità, vulnerabilità e povertà. Il volto concreto dell’altro appare, frantuma il mondo-godimento e pone il soggetto di fronte ad un dilemma irrisolvibile: mi accogli o mi uccidi? Mi onori o mi ignori?

Forse i giovani che sono accorsi sul litorale romagnolo per dare una mano non hanno letto Levinas ma hanno saputo dare una risposta precisa e concreta all’interrogativo che il volto dell’altro ha posto alle loro vite.

Senza scomodare tanta filosofia, questo interrogativo legato alla presenza dell’altro è esattamente il senso della domanda che Dio fa a Caino dopo che questi ha ucciso Abele: “dov’è tuo fratello?”. È la domanda che risuona da allora attraverso tutti i secoli fino a giungere a noi; è l’interrogativo che accompagna ogni essere umano che calpesta questa terra. Dio fa due domande nei primi capitoli di Genesi, due domande che in realtà sono una domanda unica: “dove sei?” e “dov’è tuo fratello?”. Diventare uomini ha a che fare con il riconoscimento ed il senso che assegniamo a questa “alterità dell’altro”, che interpella, inquieta, disorienta e, talvolta, ferisce.

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