I giovani della generazione Erasmus sono “costruttori di pace”

C’è una generazione che sente l’Europa come casa propria, come il proprio ambiente naturale e vitale. La potremmo chiamare la generazione Erasmus anche se temo che questa definizione vada un po’ stretta. Sono quei giovani per i quali studiare o lavorare a Milano, Barcellona o Berlino non fa una grande differenza, dal momento che si sentono a loro agio in qualunque località del vecchio continente.

È una generazione di giovani (anche lodigiani e sudmilanesi) che non teme di confrontarsi con nuove culture, diverse lingue, abitudini differenti, e che vive l’incontro con l’altro come un guadagno, un arricchimento, qualcosa da ricercare e da intensificare. Sono giovani non solo abituati a viaggiare e a parlare diverse lingue, ma capaci di riconoscere la bellezza e la ricchezza che scaturiscono dalla differenza, dal confronto e dal dialogo; sono coloro che non sperimentano l’altro come una minaccia solo perché ha una pelle di colore diverso o perché parla un altro idioma o perché il suo pranzo ha sapori diversi da quelli a cui si è abituati. Questa generazione è il frutto più bello del sogno europeista dei padri fondatori, di De Gasperi, Schuman e Adenauer: sono quelle persone che sentono l’Europa non solo come un mercato comune o un’isola economica, ma come una comunità politica, culturale e sociale, che, benché attraversata da differenze linguistiche e storiche, vive di una sola matrice culturale, di un solo progetto, di un solo sogno.

Guardare a questa gioventù con gli occhi del nazionalismo, del localismo o della tutela delle frontiere è come osservare la storia dallo specchietto retrovisore: di certo si manca l’obiettivo. Certe politiche nazionaliste e populistiche proprio fanno fatica a comprendere quello che muove i cuori e le menti di questa generazione: a loro mancano le categorie interpretative, l’orizzonte di valori, il senso della prospettiva. È un po’ come tentare di spiegare all’uomo delle caverne cosa sia la luce elettrica: non solo non la capisce ma manco riesce ad immaginarla.

Se vi capita di parlare con qualcuno di questi giovani della fuga dei cervelli, un tema che appassiona spesso la politica nostrana, egli vi guarderà con aria sorpresa e stupita. Non capisce dove stia il problema di cercare opportunità all’estero dal momento che l’estero per lui è casa quanto lo è l’Italia. Intendiamoci: non sono giovani esterofili o ingrati verso il proprio Paese, tutt’altro! Chi ha vissuto per un certo periodo all’estero conosce benissimo il senso delle proprie radici, quel sentimento che ti lega ad un posto assai più di quando ci vivevi. Il punto, per loro, è che sentirsi italiani ed europei sono due cose che stanno tranquillamente insieme, senza alcuna contraddizione od opposizione. Anzi: si sentono europei proprio perché italiani ed italiani proprio perché parte di una comunità europea più vasta.

Per loro - onestamente è difficile dar loro torto - il punto non è tanto perché i giovani italiani cercano opportunità in Europa, piuttosto perché i giovani europei non cerchino opportunità in Italia. E qui la cosa si fa assai complicata per i governi di casa nostra. Perché non basta chiudere le porte o i porti ma occorre attivare politiche e dinamiche socio-economiche capaci di attrarre talenti, capaci di integrare e di stimolare quella parte più vitale della gioventù europea che non si accontenta di slogan, antichi nazionalismi, vecchi armamenti tradizionalisti o proclami desueti. È gente abituata a viaggiare con la freccia di sorpasso sempre accesa, che vuole crescere, comprendere, integrarsi e incontrarsi.

Credo che questi giovani siano la garanzia più affidabile per la pace di domani, il migliore investimento per un futuro di serenità e prosperità per il nostro vecchio continente. I loro studi, i loro incontri, i rapporti che hanno costruito tra loro, l’idea di comunità che hanno elaborato, sono assicurazioni assai più efficaci di armi, blocchi navali o difese aeree. Loro la pace, l’integrazione, la convivenza la vivono ogni giorno, la praticano, la esercitano, sia che si trovino a Helsinki, Dublino o Madrid.

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