I fatti della scuola del Ponte e la “difficoltà delle parole”

La riflessione di una professoressa

Lo scorso sabato abbiamo dato notizia di un episodio avvenuto alla scuola media del Ponte di Lodi (scritte contro una docente nei bagni degli studenti) e dei provvedimenti adottati dalla dirigente scolastica. Proponiamo ora una riflessione di Elena Bulzi su quanto accaduto.

È mercoledì e domani sarà l’ultimo giorno prima delle vacanze natalizie, giorni attesi da tutti, studenti ed insegnanti, per godere di qualche giorno di serena tranquillità. È mercoledì e sono in classe, come ogni mattina, in una classe terza del primo piano. Stiamo ragionando intorno a un’autobiografia cognitiva che i ragazzi riprenderanno poi singolarmente con calma per riflettere sul percorso compiuto. L’autobiografia cognitiva è uno strumento importante: serve appunto per tornare su un’attività svolta e pensare non solo al prodotto finale e al voto, ma anche e soprattutto al percorso svolto per ottenere quel risultato.

È uno strumento per ritornare sull’efficacia sperimentata lavorando con il gruppo dei compagni nella costruzione del prodotto cognitivo, ma anche per soffermarsi sulle difficoltà incontrate e sulle strategie messe in atto per affrontarle e tentare di superarle. L’autobiografia cognitiva raccoglie poi la messe preziosa di intuizioni, di piste di lavoro e di ricerca che i ragazzi hanno concretizzato per svolgere il compito di realtà assegnato. Tutto questo materiale sarà raccolto in un file condiviso con i ragazzi e le loro famiglie, a documentare la bellezza e la fatica sfidante di trovare modalità di lavoro sinergiche ed efficaci, nella convinzione dell’importanza della dimensione sociale dell’apprendimento.

I ragazzi ascoltano e chiedono: comprendono che è davvero per loro questo lavoro (infatti non ci sarà una valutazione su quanto scriveranno), è per invitarli ancora una volta a stare su cosa fanno e su come lo fanno. È mercoledì mattina prima di Natale e con i ragazzi stiamo riflettendo su questo, quando la porta della classe si apre e ci viene comunicato che nei bagni maschili del primo piano (quelli a cui accede anche la classe in cui siamo) sono apparse scritte gravemente offensive nei confronti di un membro della nostra comunità scolastica. Le parole che sto dicendo cadono e si frantumano a terra con un rumore che sento solo io… o forse lo sentono anche gli studenti, visto che il gelo cala di colpo.

Nella mia testa vortica un’accozzaglia di pensieri che sono cocci di bottiglia. Li guardo uno per uno, poi, abbassando lo sguardo, passo in rassegna tutti gli altri studenti maschi delle classi del primo piano. Chi può avere fatto una meschineria simile? Mi sale una rabbia triste di impotenza. Respiro a fondo: non voglio che sia questa emozione a dominare la scena. Non perché siamo a Natale e, come recita una tiritera che dà a noia, “dobbiamo essere tutti più buoni”. Non si tratta di buonismo, e men che meno di quello melenso che si tira fuori in queste occasioni. Si tratta di una scelta precisa, da incarnare quotidianamente e con fatica in micro azioni quotidiane: come interpretare il ruolo di insegnante e di educatore. E le reazioni di rabbia, che inevitabilmente montano di fronte a situazioni come questa, devono lasciare spazio a riflessioni di più ampio respiro. E mentre respiro a fondo, al “chi?” subentra il “perché?”. È questa la domanda che ritengo più urgente, senza però voler banalizzare la gravità del gesto e della responsabilità individuale. Perché un ragazzino non riesce a convertire in parole adeguate la tensione che lo abita?

Perché un ragazzino non interiorizza il principio che “le idee si possono discutere, le persone si devono rispettare” e che “gli insulti non sono argomenti”? Quante volte abbiamo lavorato su questi punti del Manifesto della comunicazione non ostile? In realtà lo so perché, anche se vorrei talvolta fosse più facile raggiungere qualche obiettivo in modo stabile per tutti e tutte. So bene, come dice lo psicoterapeuta Matteo Lancini, che “le ragazze e i ragazzi sono alla ricerca spasmodica di adulti da cui ricevere supporto emotivo ed evolutivo” e che “la cura nel creare un’atmosfera di crescita serena non deve essere confusa con la tendenza alla rimozione degli ostacoli incontrati sulla strada della crescita e con la negazione delle difficoltà quotidianamente portate in dote dalla vita”.

Per questo non mi stanco di scrivere, di ripetere e di vivere la convinzione che tutti noi adulti dobbiamo assumerci “nuove forme di responsabilità” senza però pensare di evitarle ai nostri ragazzi. Anche noi insegnanti, insieme ai genitori, mendichiamo un posto per far nascere l’umanità dei nostri ragazzi, però pensare di farcela da soli ed in modo autoreferenziale oggi è davvero utopia.

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